Magazine Diario personale

1964 – Giuseppe Saragat

Da Iomemestessa

Sul finire dell’anno 1964, si decide infine che dopo mesi di ‘sensorio vigile’ (la fantasiosa formula medica architettata per evitare la presa d’atto dell’ovvio e le immediate dimissioni di Segni) fossero maturi i tempi per procedere all’elezione di un nuovo Capo dello Stato.

Le dimissioni arrivano, ufficialmente, il 6 dicembre. Candidato ufficiale della Democrazia Cristiana è il presidente della Camera Giovanni Leone, che la spunta su Fanfani, Scelba e Giulio Pastore, primo ed assai potente segretario della CISL fino al 1958.

Socialisti, repubblicani e socialdemocratici ripropongono, come due anni prima, il fondatore del PSDI, Giuseppe Saragat. Sessantasette anni, torinese, vedovo, di ascendenze sarde, socialista di ala turatiana e riformista sin dal 1922, esiliato in Svizzera, Austria e Francia negli anni del fascismo, nel 1943 al rientro, viene arrestato dai Nazisti, Presidente della Costituente nel 1946, dissentendo dalla deriva comunista presa dai socialisti nel dopoguerra nel 1947 dà luogo alla scissione del PSI a Palazzo Barberini, di fatto appoggiando l’adesione dell’Italia alla NATO e al Piano Marshall, e guadagnandosi l’imperituro odio di molta parte del PCI.

Ma alla fine del 1964, quasi vent’anni dopo, l’ala riformista del PCI, cui fa capo Amendola, sarebbe anche disposta a votare Saragat, mentre la sinistra che fa capo ad Ingrao preferirebbe Fanfani, che pare più in sintonia con loro sul modo di interpretare il centrosinistra.

Così stanno le cose all’inizio delle votazione. Il 16 dicembre.

I primi quindici scrutini trascorrono con un nulla di fatto. Tra discese ardite e risalite, Leone va su e giù, come sulle montagne russe, ma non raggiunge mai il quorum. Impallinato da franchi tiratori raramente così attivi.

E i franchi tiratori, precisiamolo, son tutti ‘amici’. Sì, amici, come di chiamavano tra loro i democristiani in contrappposizione ai compagni del PCI. Dice l’antica saggezza popolare ‘dai nemici mi guardo io dagli amici mi guardi Dio’. Leone, furbo napoletano superstizioso di certo già l’immaginava, ma ne avrà la prova provata.

La regia delle 15 votazioni vede la firma, a volte alternata, e a volte congiunta del solito Fanfani, di Ciriaco De Mita e di Carlo Donat Cattin.

Ad un certo punto, per cercare di sbloccare la situazione scende in campo Paolo VI con una lettera inviata dal Direttore dell’Osservatore Romano, Manzini, al buon Fanfani: ‘Quassù si desidera vivamente un rinuncia per il bene maggiore’

Paolo VI non è nuovo a queste uscite. Due anni prima, ancora Cardinal Montini, fu una sua telefonata a sbloccare le votazioni in favore dell’amico Segni.

Ma i democristiani, in realtà, il Vaticano l’ascoltano solo quando interessa a loro, e la lettera si rivela un buco nell’acqua. La risposta arriva a stretto giro alla votazione successiva, quando tre anonimi fanfaniani scrivono sulla scheda il nome di Ludovico Montini, fratello del Papa e senatore Dc. Mentre gli altri votano scheda bianca.

Leone, avendone a questo punto legittimamente piene le palle, si ritira. È il 24 dicembre.

Per la prima volta nella sua storia, il Parlamento italiano aprirà i battenti anche il giorno di Natale. Fosse adesso, va detto, pur di essere a casa a tagliare il panettone voterebbero anche uno dei comessi di Montecitorio.

In piazza Montecitorio la folla scalpita: qualche buontempone ha messo in giro la voce che il gettone di presenza sia di 50 mila lire al giorno. Non è vero, ma tutti ci credono.

La DC non ha un nuovo candidato da sostenere e quindi decidono finalmente unanimi per l’astensione. Nella notte, all’ennesima riunione di partito, c’è uno scontro frontale tra le forze fedeli a Fanfani e Donat Cattin, che sarebbero disponibili ad un accordo con le sinistre, e la destra di Scelba ed Andreotti, contraria ad ogni accordo. Partoriscono un fumoso comunicato in perfetto stile doroteo, da cui si evince che voterebbero pure Saragat, ma non lo nominano mai. L’indomani, comunque, ennesima votazione a vuoto. E anche il compatto fronte pro-Saragat comincia a perdere i pezzi, e molti socialisti si uniscono al PCI per votare Nenni, come sarebbe, permettemi, anche logico. Saragat, che non è stupido, si ritira provvidenzialmente. Per ripresentarsi l’indomani.

Il segretario del Psdi Mario Tanassi (sì, c’è stata un’epoca in questo Paese, in cui anche un Tanassi contava qualcosa, quindi consolatevi, non solo questi son tempi bui)  va a chiedere i voti del PCI. Luigi Longo dice di sì, a patto di un appello pubblico ed esplicito, e come dargli torto. Sembra fatta, perché Saragat ha già in tasca i voti del PSI, dopo un incontro strappacore con Nenni. Però c’è ancora un però. Deve stare attento a non far incazzare la Dc moderata. Così s’inventa una dichiarazione che pare scritta da Aldo Moro: “Ho posto per la seconda volta la mia candidatura a presidente della Repubblica e mi auguro che sul mio nome vi sia la confluenza dei voti di tutti i partiti democratici e antifascisti”.

Ora. Sull’antifascisti, nessun dubbio, lo son tutti tranne i missini, che non lo voteranno (anche se Scelba e antifascista nella stessa frase è un discreto ossimoro). Ma democratici? Democratici è l’uovo di colombo (non Emilio e neppure Vittorino). I comunisti si sentono democratici, i democristiani non li considerano tali, Longo e Rumor, i segretari, son contenti così e il 28 dicembre con 646 voti, Giuseppe Saragat diventa il quinto presidente della Repubblica Italiana.

E’ il presidente di tutti, tranne missini, liberali e il solito gruppetto di franchi tiratori.

Vedovo, gli farà da First lady, all’occorrenza, la figlia Ernestina, di cui qui si approfitta per dire un gran bene. Discreta, presente all’occorrenza, sposata e madre, non imporrà la sua famiglia al mondo. E né lei, né il marito verranno ricordati come intrallazzatori. peraltro non si contano eredi Saragat nelle folte schiere degli italici ‘figli di’. Se c’è merito occorre dar merito.

Fa un un onesto discorso di insediamento, e sarà un fedele alleato dell’Alleanza Atlantica, anche se non mancherà di far notare al Presidente Lyndon Johnson che sarebbe ora di chiudere la guerra in Vietnam, facendo incazzare la Casa Bianca.

Con equilibrio attraverserà un settennato non facile, col Sessantotto, gli scontri di piazza, le prime bombe e l’inizio della strategia della tensione. S’aggiunga una sostanziale instabilità politica, con Moro ormai sempre più rassegnato ad un tandem col PCI.

Personaggio schietto e genuino, sopporterà con fastidio le battute sulla sua inclinazione per gli alcolici.

Narra la leggenda, che dopo il passaggio di Pinot* Barbera, le cantine quirinalizie risultarono ben più snelle.

Terminerà il settennato il 29 dicembre del 1971, con la speranza di essere rieletto, e mentre l’Italia va verso gli anni più duri della sua storia

* Per i non piemontesi, Pinot, in piemontese, è l’equivalente di Peppino al Sud, Bepi nel Nord Est, e Beppe o Peppe, un po’ ovunque. Se ci aggiungete il fatto che il Pinot è pure un vino, il gioco di parole è servito.

Un settennato in pillole

Il 25 agosto 1964 a Roma hanno luogo i funerali di Palmiro Togliatti. In piazza San Giovanni si raccolgono più di un milione di persone. Il nuovo segretario comunista è Luigi Longo

Nel settembre 1965 a Parigi, il Presidente Charles de Gaulle annuncia l’uscita della Francia dalla NATO, indicando che può esistere, anche, un’altra via

Il 4 novembre 1966 a Firenze, straripa l’Arno. Le vittime saranno 35. I danni immensi. L’Italia si scopre essere un Paese, e da ogni dove giungono volontari per portare soccorsi, dimostrando, una volta ancora che il problema dell’Italia non è l’emergenza, ma la quotidianità

Il 9 ottobre 1967  a La Higuera, Colombia, ferito in un’imboscata viene assassinato dalle forze governative, viene assassinato Esrnesto Guevara de la Serna. Che Guevara, invece, vive ancora, in ogni angolo di quell’America Latina le cui vene aperte gridano, ogni giorno vendetta.

Nel 1968 succede di tutto. Il mondo è in fiamme, nuove idee si affacciano. E’ chiaro a chiunque che un nuovo mondo è alle porte, comunque vada. Se ne avvede anche Paolo VI che il 25 luglio rende pubblica l’enciclica Humanae Vitae, in cui si condanna ogni forma di contraccezione con metodi artificiali, e si ribadisce quale legittima la sola sessualità coniugale a fini procreativi.

Il 12 dicembre 1969 a Milano, presso la Banca Nazionale dell’Agricoltura, in Piazza Fontana, esplode una bomba. Il bilancio è di 17 morti e 88 feriti. Nell’arco di un’ora scoppiano (o vengono fatte brillare) altre quattro bombe tra Roma e Milano. Gli anni bui sono cominciati, e l’Italia non sarà più la stessa.

Il 15 dicembre 1969, sempre a Milano, viene accusato della strage l’anarchico Pietro Valpreda, uscirà da questa storia del tutto assolto nel 1979. Contemporaneamente, in questura a Milano, l’anarchico Giuseppe Pinelli, fermato per le stesse ragioni, cade ‘accidentalmente’ dal 4° piano. Non fate illazioni. Voleva solo imparare a volare.

Il 7 dicembre 1970, a Roma fallisce il golpe Borghese, messo in atto dal Principe Junio Valerio Borghese, esponente dell’estrema destra eversiva

Il 10 marzo 1971 la Corte Costituzionale abroga l’articolo 553 del Codice Penale che vieta la produzione, il commercio e la pubblicità degli anticoncezionali. Avere un figlio diventa una scelta, e non più un obbligo sociale, almeno sulla carta.


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