Magazine Diario personale

1971 – Giovanni Leone

Da Iomemestessa

E’ Natale, e siamo tutti più buoni. I nonni raccontano le fiabe sotto l’albero, e i bimbi attendono l’arrivo del Bambin Gesù coi suoi doni (che il ciccione vestito di rosso ce lo importerà qualche anno più in là Coca Cola, insieme ad alcune campagne pubblicitarie memorabili).

Sono tutti più buoni, tranne qualcuno.

Non è più buono Ugo La Malfa, segretario PRI, che, nell’imminenza dell’elezione quirinalizia, ha un solo obiettivo ‘Romperò i garretti ai due cavalli di razza’ (riferendosi all’accoppiata Fanfani-Moro). Obiettivo, dichiarato, impallinare i candidati DC.

Non è più buono Giuseppe Saragat, giacché, nei sette anni trascorsi al Quirinale, Pinot Barbera ci ha preso gusto e gradirebbe una riconferma.

Non sono più buoni gli amici della DC che vogliono, tutti, salire sul Colle. Ma lì c’è posto per uno solo. Fanfani, Moro e Leone s’abbracciano in pubblico per pugnalarsi alle spalle in privato, come da miglior tradizione della ditta.

L’ala destra, capeggiata dai dorotei più l’inossidabile Andreotti, che come noto non è né destro né sinistro (cioè sì, è sinistro, ma non in quel senso lì) ma interessato al potere, punta su Giovanni Leone.

Al centro i fanfaniani puntano sul Fanfani medesimo, che ci tiene tanto, ma tanto proprio. come vedremo.

A sinistra (sì lo so, la sinistra è un’altra cosa) i morotei e De Mita puntano compatti su Moro.

In mezzo a tutti, il segretario, un fanfaniano che impareremo a conoscere bene nel corso degli, Arnaldo Forlani, non sa bene che pesci pigliare. Comunque vada sarà un gran casino, considerando che alle ultime amministrative la DC ha lasciato un 7% nelle mani dei missini. E quindi è da evitarsi come la peste un candidato sinistro, ma purtuttavia un candidato destro provocherebbe reazione uguale e contraria portando voti alle sinistre. E da qualunque parte la sia guardi c’è odore di débacle

I partiti alleati tradizionali della DC, come un sol uomo concordi, son d’accordo su una sola cosa: accapigliarsi.

Si inizia a votare il 9 dicembre e, da come si presentano le cose, c’è il rischio di un altro Natale a Montecitorio.

Alla fine la DC cerca di trovare una convergenza, ed esce il nome di Fanfani. Ma l’Amintore non sta messo benissimo neppure lui. E’ appena uscito da una battaglia rovinosamente persa. Il 1° dicembre 1970, con un colpo di mano che lascia sgomenti DC e Vaticano (ma pure iL MSI, che però è meno centrale), PCI, PSI, PSDI, PSIUP, PRI e PLI (cioè pure i liberali, povero Paolo VI) ratificano l’ovvio, e cioè che l’amore è eterno finchè dura, e approvano compatti la legge Fortuna-Baslini che introduce il divorzio nell’ordinamento giuridico italiano. Il Vaticano è sgomento, gli Italiani tirano un sospiro di solievo e molte famiglie riescono finalmente a sistemare soluzioni fin lì gestite in modo sgangherato.

Insomma, non un gran periodo, per uno come l’Amintore, abituato ad essere un vincente.

Alla prima votazione la prima certezza. Gli ‘amici’ appoggiano Fanfani, ma ne manca sempre qualcuno all’appello e lui  388 voti, contro i 397 del socialista Francesco De Martino, votato compattamente dal fronte social-comunista.

I socialisti, col segretario Giacomo Mancini, non mollano, nonostante un certo Bettino Craxi, astro nascente del partito si stia dando da fare, di nascosto, per Moro. Ma La Malfa, vuole a tutti i costi un laico, o, al massimo un cattolico di complemento.

Il PLI punta su Malagodi, il segretario, mentre il PSDI porta avanti il vessillo saragattiano, che il presidente uscente ci terrebbe proprio.

A Fanfani occorrono undici scrutini per capire che non è cosa, anche se, se avesse prestato attenzione, se ne sarebbe già reso conto ben prima, quando su una scheda mano ignota depositò nella grande urna una rima baciata: “Maledetto nanetto/non verrai mai eletto”. E poi dicono gli amici.

Dal caravanserraglio dei veti incrociati, esce un trio eterogeneo: Leone, Rumor o Paolo Emilio Taviani. Rumor e Taviani non ci pensano neppure. E allora, il 24 dicembre 1971, alla ventitreesima votazione, con 518 voti tra cui quelli, determinanti per il raggiungimento del quorum dei missini, Giovanni Leone doventa il 6° Presidente della Repubblica Italiana.

Napoletanto, sessantatré anni, il più giovane dei presidenti sino a quel momento, brillantissimo docente universitario, finissimo giurista, principe del foro, padre Costituente, presidente della Camera, due volte presidente del Consiglio, Leone reca con sé la fama di uomo super partes.

Per contro, lasciano un po’ interdetti una certa qual esuberanza, una ostentata napoletanità (con O’ Sole mio cantata a squarciagola anche nelle occasioni ufficiali) e una famiglia che costituirà il suo tallone d’Achille e farà rimpiangere d’un colpo il mite Einaudi, il donnaiolo Gronchi, l’austero Segni, e il vedovo Saragat. Di Donna Vittoria e dei figli, Mauro, Giancarlo e Paolo (detti ‘i monelli’) parleremo però più in là.

L’Italia sta attraversando il suo momento più difficile. Quando si presenta in aula per giurare viene accolto da un lancio di monetine. In realtà il discorso di insediamento, a parte la prosa pedante e pesante caratteristica dell’uomo, è equilibrato ed istituzionale.

E’ stato, senz’altro il Presidente più discusso della Repubblica. Ma attraversò anni onestamente non facili. Li citeremo nel settennato in pillole, ma non si può prescindere, nel giudicarlo, dal tener conto dell’uscita dal serpente monetario (1973), referendum sul divorzio, strage di Brescia, strage dell’Italicus (1974) ripetute cadute di governi e scioglimenti delle camere. Una fortissima crisi economica.

Prono ai voleri della DC, diventa rapidamente inviso a tutti gli altri. Di suo ci mette frequentazioni che non dovrebbero essere quelle di un presidente. E una famiglia davvero troppo disinvolta.

A questo punto, dovrebbe partire la crocifissione della famiglia Leone. Vi deluderò. C’era una donna molto bella, molto giovane (molto più giovane del marito) colta, brillante e disinvolta. Quando entra al Quirinale, ha 43 anni (venti meno del marito, ma è cosa non inusuale in quel periodo) e nessuna attitudine alla comprimarietà. Le piaccioni i begli abiti e le belle cose, e si illude di poter essere la nuova Jacqueline Kennedy. Ha sbagliato tutto. Quello era (ed in parte é ancora) un paese bigotto, conservatore.

Una donna così, in un Paese che in quegli anni fonda ancora la condizione femminile sul detto veneto ma estensibile all’intera penisola (che sia bela, che sia brava, che staga en casa e che tasa), non può che avere dei guai, e procurarne a chi le sta intorno. Stupisce che una donna intelligente non cogliesse questa sfumatura, ma la vanità distorce, spesso, la realtà.

Stupisce ancor di più che il marito, uomo altrimenti accorto, non glielo abbia fatto notare. Ma vien da aggiungere che Giovanni Leone fu, dei presidenti, quello con l’ego più ipertrofico (con Cossiga).

Quanto alla prole, prendete tre ragazzi ventenni, con due genitori dall’ego ipertrofico e metteteli sotto i riflettori del composto mondo quirinalizio. Mettete quei tre ragazzi ventenni con dei genitori cui la stampa non perdona nulla sotto i riflettori e li faranno a pezzi. E non è una giustificazione. Ma vorrei sapere se qualcuno sia mai andato ad indagare sugli affari in corso d’opera dei figli (ben più grandi) dei presidenti venuti prima e dopo. E mi domando se vengano creati più danni con gli intrallazzi o correndo dietro a qualche soubrette. Ripeto non sono assolutoria, e quelle persone non sono il mio genere, ma trovo che siano stati usati spesso due pesi e due misure.

In una situazione del genere, con un Presidente che a livello comportamentale lasciava a desiderare (le corna a Pisa, agli studenti che lo contestano, le corna a Napoli, tra i malati di colera), il gioco fu facile nel coinvolgerlo in una serie di scandali, su tutti i il caso Lockheed, col Presidente sospettato di essere l’Antelope Cobbler, ma anche i nepotismi, le amicizie chiacchierate col finanziere Rovelli e con lo scià di Persia.

Una violentissima campagna di stampa, condotta da L’espresso e da Camilla Cederna, ma anche da OP di Pecorelli e dai Radicali di Pannella e Bonino, lo mettono alle strette e sotto l’occhio continuo dei riflettori.

Ne uscirà, anni dopo completamente scagionato, e Pannella e Bonino (due gran signori comunque la si pensi) si scuseranno pubblicamente.

Lo scaricano tutti, e su tutti, il suo partito. Quello stesso partito che l’aveva invitato a non querelare sulla base della libertà di stampa, usa quelle accuse per farlo dimettere, mentre il PCI chiede le sue dimissioni, e La Malfa s’accoda.

La DC lo molla e Zaccagnini, con l’onnipresente Andreotti, vero playmaker di quegli anni, lo invitano con cortese fermezza alle dimissioni. Lui in realtà ha già pronto il discorso di commiato e si libera dei due messaggeri con signorile finezza: “Grazie, guagliò, così ora potrò guardarmi i Mondiali di calcio in santa pace”.

Queste righe non sono di difesa di quello che fu in realtà un pessimo presidente, sostanzialmente inadeguato al ruolo e alle sfide. Ma che fosse inadeguato, al ruolo e alle sfide, lo diceva pure il suo passato, di conservatore tenace inadeguato a confrontarsi con un’Italia che stava cambiando velocemente e radicalizzandosi nelle lotte.

Si può dire tutto il peggio, di Giovanni Leone, ma fu crocifisso, e con lui la sua famiglia per le ragioni sbagliate.

Un settennato in pillole

Il 22 dicembre 1971, l’Onu elegge a proprio segretario generale l’asutriaco Kurt Waldheim. Ex combattente Wehrmacht, accusato di crimini nazisti (sebbene mai condannato). Diventerà anche Presidente dell’Austria. Quando ad essere inopportuni non siamo solo noi.

Il 17 maggio 1972 viene assassinato a Milano, il commissario Luigi Calabresi. Sono anni bui, e lo saranno sempre di più

L’11 settembre 1973 in Cile un colpo di stato ordito dal generale Augusto Pinochet, depone il democraticamente eletto socialista Salvador Allende che si suicida (o viene suicidato) nelle fasi finali del colpo di stato, dando il via ad una delle dittature più schifose della storia sudamericana (che pure di storie marce ne ha da raccontare)

Il 25 aprile 1974 un gruppo di militari depone Caetano ponendo fine alla dittatura salazarista in Portogallo, mentre il 23 luglio 1974 cade in Grecia quella dei Colonnelli. Resiste per il momento Francisco Franco.

Il 20 novembre 1975 muore nel suo letto Francisco Franco, l’ultimo dittatore dell’Europa occidentale. Sale al trono Juan Carlos de Borbon y Borbon. Dovrebbe essere il paladino della dittatura. Traghetterà invece il Paese verso una compiutissima democrazia.

Il 1° settembre 1976 le Brigate Rosse uccidono a Biella il vicequestore Francesco Cusano. non è il primo delitto ad esse ascritto. Ma segna l’inizio degli Anni di Piombo.

Il 12 maggio 1977 a Roma il Partito Radicale organizza un sit-in Piazza Navona per celebrare l’anniversario del referendum sul divorzio del 1974. Il Ministro dell’Interno Cossiga dopo la morte dell’agente Passamonti impone il divieto di manifestare. La polizia interviene sparando colpi di pistola: sul Ponte Garibaldi muore la studentessa Giorgiana Masi. Le polemiche saranno moltissime. La polizia sparò ad altezza d’uomo.

Il 22 maggio 1978 è approvata la legge sull’interruzione volontaria della gravidanza (legge n. 194/78) con cui l’aborto è consentito entro 90 giorni dal concepimento; in seguito è ammesso solo in caso di pericolo per la vita della madre o di gravi anomalie del nascituro. Se ne discute ancor oggi. E resta ancor oggi un baluardo della società civile. Perchè il punto non è condividere una posizione, ma sapere che le convinzioni di ciascuno finiscono là dove iniziano i diritti di un altro.


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