La sera del 21 marzo del 1994 alla vigilia dell’uscita del primo numero de La Voce erano due le possibili copertine già impostate per l’approvazione del direttore. La prima era stata disegnata dall’ufficio grafico seguendo il più tradizionale dei modelli possibili, con la classica apertura, la foto principale neanche troppo grande, i titoli secondari e le varie chiamate di rito. Insomma una pagina “normale” ed equilibrata come se ne stampano ancora oggi a tonnellate nel mondo. La seconda, nelle mani di un gruppetto di “carbonari” messi un po’ al lato dell’ufficio grafico, era composta solo dall’editoriale di Montanelli e da un titolo d’impatto sopra un grande montaggio fotografico centrato sui protagonisti delle ormai prossime elezioni. Berlusconi e Occhetto erano stati tagliati in due come a simboleggiare la divisione che attraversava all’epoca un Paese pronto a un voto difficile: titolo, “L’Italia si è spaccata”.
Io ero uno dei due carbonari accompagnati all’inizio di quella avventura da Sergio Sartori, l’autore del progetto grafico del nuovo quotidiano, e tutti sotto la guida di Vittorio Corona, vice direttore e vera mente visuale del giornale. L’ordine di Vittorio era stato tassativo: “Finite il lavoro, ma non mostrate questa copertina a nessuno”.
Trovai subito geniale l’idea delle teste spaccate: una cosa mai vista prima. A dire il vero in quei giorni di preparativi per il lancio, a parte il clima inevitabilmente effervescente, le cose che mi colpirono di più furono proprio la carica creativa di Corona e il coraggio di Montanelli di imbarcarsi, nonostante gli 80 anni suonati, in un’avventura tanto nuova quanto rischiosa.
Il miracolo avvenne tra lo stupore e l’incredulità di tutto il vertice del giornale durante la normale riunione serale per definire proprio la prima pagina. La copertina di esordio de La Voce sarebbe stata rivoluzionaria. Montanelli aveva scelto e benedetto quello che a molti in redazione sembrava un azzardo.
Il secondo miracolo avvenne il giorno dopo in edicola: quasi 600.000 copie sparite in poco tempo. All’ora di pranzo nonostante le ristampe il giornale era introvabile. Sold out. Montanelli aveva fatto bene a fidarsi delle idee apparentemente bislacche di Corona.
In realtà anni dopo scoprii che quell’idea di copertina era già stata discussa durante una colazione riservata in un ristorante non lontano dalla redazione di via Dante, a Milano. Il patto tra Montanelli e Corona c’era, l’ok del direttore pure, ma il piano doveva restare segreto. Durante quell’incontro Corona (e Vittorio lo racconta dettagliatamente nel suo libro “Senza Voce”) ebbe modo di spiegare a Montanelli la sua idea del quotidiano che stava per nascere.
Per prima cosa un giornale diverso, asciutto per numero di pagine, capace di scegliere e mai disponibile all’esposizione compilativa delle notizie: qualità non quantità. Diverso per il taglio da settimanale nel privilegiare gli approfondimenti, quindi non il solito quotidiano “contenitore” di fatti, ma un giornale con titoli brillanti, spesso ironici, accompagnati da sommari abbondanti, discorsivi, capaci realmente di sintetizzare la notizia a chi non avesse tempo.
Spavaldo e curato nei contenuti, nel modo di disporli graficamente, in ogni sua riga, in ogni immagine proposta anche a costo di correre il rischio di dare qualche volta un pugno nello stomaco dei lettori. E ancora, un quotidiano all’avanguardia nelle scelte tipografiche (la forza razionale del Century New Schoolbook messa a contrasto con l’eleganza del Caslon, l’uso nei titoli di grandi parole in corsivo, soluzione oggi diffusa tra i mensili…) in una epoca dominata dal Times New Roman, dal Franklin, ovvero quando a parlare di caratteri specifici per giornali sembrava un poco una cosa da alieni. E il tutto impacchettato in un formato di stampa stretto e allungato come usano oggi i giornali americani, soluzione profondamente diversa da quella a “lenzuolo” diffusa ai tempi in Italia. L’ambizione de La Voce era di puntare sui giovani e sulle donne aprendo ampi spazi alla cultura, alla moda, allo spettacolo e la missione era di proporre qualcosa di profondamente innovativo, sotto la guida, però, del direttore più tradizionale e conservatore che si potesse immaginare
Ma un giornale che vuole essere così diverso, questo in sintesi il ragionamento di Corona a Montanelli, non può presentarsi con una copertina tradizionale. Al contrario ha bisogno di mostrarsi spavaldo e ambizioso a maggior ragione in prima pagina e deve necessariamente puntare, oltre che sulla forza e sulla risonanza dell’editoriale, anche su una grande immagine sorprendente e su titoli graffianti. Insomma il design non come esercizio di stile ma come elemento distintivo d’innovazione, personalità e sorpresa.
Così a partire dal fortunato esordio nacque una sorta di rito. Ogni sera Montanelli affidava a Corona la lettura del suo editoriale affinché Vittorio ne ricavasse sia l’idea del titolo che quella del relativo fotomontaggio. Poi era il nostro turno. Trasformare quelle idee in qualcosa di reale da portare all’approvazione del direttore.
Lavorare con Corona era faticoso per l’impegno richiesto, ma sempre appagante e divertente. Vittorio aveva una capacità di sintesi unica, la dote di saper coniugare con facilità titoli e immagini (ma molto spesso succedeva il contrario, si partiva dalla foto), una memoria visuale incredibile e un tocco di humor che poteva rasentare una sorta di amabile perfidia. Era impossibile annoiarsi. E di lavori memorabili in quel clima spesso giocoso ne sono stati prodotti parecchi. Non tutti a essere onesti, ma molti decisamente.
La Voce purtroppo però è stata una meteora. Un anno e venti giorni dalla sua uscita si trovò a dover chiudere nonostante vendesse ancora 60.000 copie al giorno. Sui motivi della chiusura si è scritto molto, spesso in maniera neanche troppo generosa o corretta. In realtà sulla storia del giornale le uniche informazioni che restano un riferimento per me sono quelle descritte da Montanelli nel suo ultimo editoriale alla fine di un anno indimenticabile.
Però, per quello che ho vissuto, la storia de La Voce è stata in primo luogo quella dell’incontro tra due geni, Montanelli e Corona, persone lontanissime tra loro ma unite dal rispetto, dal talento, dal desiderio costante di innovare e dalla capacità di essere, ciascuno nel rispettivo ruolo, profondamente visionari.Il fatto che a venti anni di distanza nelle redazioni si discuta ancora intorno ai medesimi concetti esposti da Corona a un Montanelli concentrato, ma non distratto, sul suo piatto di pappa al pomodoro in fondo ne è la conferma. In quale modo è possibile essere oggi diversi, spavaldi, ambiziosi e sorprendenti?
La Voce, seppure per una stagione molto breve e magari con risultati a volte altalenanti, ci è riuscita.
…E poi altri, quasi tutti, si sono arrogati e continuano a farlo, il diritto di “svelare” Montanelli.
Come fosse mai possibile svelare un sognatore, spiegare un genio.
Vittorio Corona
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