Parigi è una di quelle città in cui devi essere al meglio di te perché lei ti offre il meglio di sé e tu non puoi sfigurare, sia mentalmente che fisicamente. (Questa cosa, per dire, la penso di Parigi e New York e con la prima ne ho avuto conferma da subito, e non di Berlino, per dire, che comunque resta la città fuori dalle classifiche per tanti motivi e resta la città dove, se dovessi scegliere a parità di condizioni, andrei a vivere).
Parigi è talmente profonda che né tre giorni né trenta bastano per dire di conoscerla, io credo, ragione per cui come un lunghissimo preliminare adesso Parigi ed io ci vogliamo da pazzi e fuori di metafora abbiamo messo le basi per tornarci di nuovo.
Parigi riesce ad essere bella in modo drammatico e naturale contemporaneamente e il discrimine è labile e leggero come la gradazione di grigio sempre diverso che l’ha avvolta in questi tre giorni. E’ imponente e maestosa da togliere e il fiato e commuovere, banalmente, riempiendo gli occhi di un leggero pianto frivolo quando appena attraversate Bd de Saint Germain e le poche stradine dopo vedi la sagoma di Notre Dame, giallo ocra di luci, svettare lungo la Senna.
Parigi reclama la tua attenzione sempre, da prima donna quale è – di quelle che sanno di essere belle ma non si impegnano più di tanto perché è connaturato in loro – come alcune delle donne viste in giro per strada, e tu non puoi fare a meno che stare lì ad osservarla, ad osservare le persone che la attraversano, che la vivono, le interazioni tra loro e loro e la città, il cameriere, in completo scuro e cravatta, che sulla terrazza del Centre Pompidou, i tetti di Parigi ugualmente sotto di lui e sotto di me, controlla che i tavolini, con le rose a gambo lungo sopra, siano perfettamente allineati.
Parigi è la gente che corre nel labirinto delle stazioni della metro, strofina l’abbonamento-spingi il tornello-passa, e tu non puoi fare a meno di pensare che a scuola oltre all’educazione civica ci siano delle ore dedicate allo studio degli scambi tra le diverse linee.
Parigi è il suo cibo buono e abbondante che sia che sia francese o libanese, devi di nascosto sbottonare il bottoncino della gonna per qualche minuto; è il vino che anche della casa, non macchia mai le labbra rosse di rossetto. E’ il pan au chocolat carico di burro e pezzi di cioccolata fondente ancora calda e il cappuccino a portar via mentre studi la direzione e lo scambio giusto sotto terra.
Parigi è il pomeriggio a Montmatre dove nonostante la folla puoi ancora vedere
un ragazzo sussurrare qualcosa ad una ragazza e vedere lei sorridere, basta una panchina un po’ più defilata sotto ad un albero con l’edera che avvolge i palazzetti bassi intorno, con le finestre di legno e due balconcini di ferro scuro. E’ il Marais il venerdì notte, le persone a bere e fumare sulle porte e seduti ai tavolini sotto le stufe, e il sabato pomeriggio tra i negozi aperti e il pranzo ebraico mentre segui il flusso abbondante ma rilassato fino in Place des Vosges. E’ la Moschea e il suo giardino di maioliche con il minareto in contrasto e totalmente a suo agio tra le case di mattoncini a vista. E’ la fashion week, sfiorata per caso, è Colette e il suo delirio di gente cool tra Pucci e Céline.
Parigi è seguire un’idea portata da casa, una suggestione letta, un film visto ed è la flânerie, ideale di vita, di quando parti per il tuo viaggio di laurea posticipato a quasi primavera – e il successivo capodanno emotivo del lunedì di ritorno – con quasi zero programmi tanto da vergognartene e voler rimediare, mappa aperta sul letto la mattina dopo l’arrivo “facciamo questo, andiamo lì” e poi puntualmente disattendere tutto.
Perché una donna che reclama la tua attenzione non aspetta di essere contestualizzata sulla mappa.
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