Con testimonianze raccolte da Ciccio Innocente e testi di Vincenzo D’Aurelio
Nell’estate del ’43 gli Alleati avevano intrapreso a una serie di bombardamenti sul Mezzogiorno mirati a indebolire le resistenze militari dell’Asse in previsione dell’avanzata verso Roma. Di conseguenza i caccia tedeschi, di stanza nell’aeroporto di San Pancrazio, erano impegnati nella difesa aerea con il sostegno a terra di gruppi radar e della contraerea italiana di cui una batteria si trovava dislocata a Salice Salentino nei pressi della voragine de li Pampi. L’aviazione Alleata per non essere intercettata dalla caccia nemica, disorientava i radar dell’Asse con il lancio di grandi quantità di striscioline in carta stagnola poiché esse erano in grado di riflettere lo stesso segnale di rimando prodotto da un aereo in volo. Diverse nuvole di queste striscioline furono viste cadere sui campi di Salice con gran meraviglia da parte di quei contadini che vi stavano lavorando. Dei bombardamenti del ’43 i salicesi più anziani conservano ancora viva memoria perché al mattino di venerdì 2 luglio di quell’anno, giorno di festa patronale dedicato a Maria SS. della Visitazione per la quale si tiene in paese anche una fiera, il frastuono prodotto dai vicini scoppi fece credere alla popolazione di essere bersaglio di un violento e improvviso attacco aereo.
Salvatore Innocente all’epoca dei fatti aveva poco più di dieci anni. Egli ricorda che quel giorno trovandosi alla fiera, nelle vicinanze del Convento, vide di colpo la gente fuggire in tutte le direzioni a causa dell’allarme aereo annunciato dalle sirene. In poco tempo all’orizzonte, guardando verso la chiesa matrice, si videro difatti alcuni bombardieri che si approssimavano a sorvolare l’intero abitato ma, dopo averlo sorvolato, sganciarono nella campagna diversi ordigni che provocarono forti esplosioni. I bombardieri erano i famosi B24/D Liberator americani, noti come “fortezze volanti” a causa dell’alto potenziale offensivo, che i salicesi identificavano come “aerei a tiralettu” per via dell’alettone a due timoni paralleli montato sulla coda che, appunto, somigliava al “tiraletto” ovvero a quella specie di telai a rettangolo usati per l’essiccazione al sole del tabacco.
Salvatore Persano aveva all’epoca nove anni e racconta che quel 2 luglio si stava recando in bicicletta alla masseria de lo Palummaru, dove il padre Giovanni faceva il gestore, per prendere della ricotta da portare a casa. Giunto all’altezza della masseria Santu Chiricu, poco distante da quella dove egli era diretto, udì in direzione di San Pancrazio il rombo di alcuni grossi aerei che si dirigevano verso di lui e perciò, ricordando le istruzioni ricevute a scuola in caso di allarme aereo, il giovane lasciò immediatamente la bicicletta per gettarsi nell’attiguo canale d’irrigazione. Da lì a poco Tòtò sentì dapprima il sibilo delle bombe e poi, a breve distanza, un tremendo scoppio che gli rigettò sopra una grande quantità di terra, tanto da coprirlo del tutto, mentre una scheggia gli aveva ustionato il viso. Le sue urla furono udite da un tal maresciallo Vergine il quale, di ritorno dalla fiera, era diretto alla masseria de la Noa che lui stesso conduceva. Egli, con le mani nude, riuscì a liberare immediatamente il ragazzo dal cumulo di terra e, dopo averlo rincuorato, lo fece accomodare sul suo biroccio assieme alla bicicletta per riportarlo, infine, a casa. Un’altra potente bomba fu sganciata anche verso la masseria detta de Lu Pezza e precisamente dentro quelle terre ricordate come di Ninu Scalpellu. Quasi contemporaneamente un altro ordigno esplose alle spalle della stessa masseria e precisamente dentro il vigneto di don Lucio D’Agostino nei pressi del quale stava lavorando Salvatore Quarta. Le schegge prodotte dalla deflagrazione, nonostante una gli fosse passata pericolosamente vicina, lasciarono fortunatamente illeso il Quarta ma l’onda d’urto prodotta lo scaraventò alla distanza di alcuni metri. Un altro testimone del bombardamento avvenuto in questa stessa zona fu Vincenzo Palazzo che, al tempo quindicenne, quel giorno era lì in un podere di famiglia per raccogliere pere assieme al fratello Uccio, di quattordici anni, e i due amici Martino e Cosimo Bianco. Verso le ore 11 udirono il rombo dei B24 in avvicinamento e non appena quel rumore diventò molto forte, i ragazzi si gettarono istintivamente per terra e questa prontezza li salvò dalla morte poiché un ordigno fu sganciato a circa duecento metri da loro. Altri due o tre ordigni caddero sulla zona detta di messere Andrea, e precisamente in quelle terre dette dei Pulice, ma non esplosero. In località lu Monte, ancora in quel 2 luglio, i bombardieri sganciarono cinque bombe che impattarono sul giovane vigneto, quasi a ridosso di una pajara, piantato da Francesco Spagnolo e suo cognato Giuseppe Di Maggio. Si narra che in quel giorno Francesco, di buon mattino, si era recato in quella sua campagna con i due figli Cosimino e Sisino di dodici e cinque anni rispettivamente. Una volta giuntivi, egli aveva lasciato i due bambini a giocare con alcune mandorle all’interno della paiara per potersi così recare, dopo le solite raccomandazioni, alla fiera di Salice giusto il tempo per fare qualche compera. Durante la sua assenza il piccolo Sisino, essendosi burlato di Cosimino, corse fuori dalla pagliara mentre il fratello si dava prontamente all’inseguimento e proprio in quel momento accadde il finimondo. Potenti deflagrazioni aprirono due enormi crateri nel terreno facendo volare a grandi distanze voluminose zolle di terra, una grossa scheggia asportò, inoltre, la parte posteriore della pagliara e il giovane vigneto bruciò quasi del tutto ma, malgrado tutto questo, i due fratelli rimasero illesi. Riavutisi dallo spavento, Cosimino prese per mano il fratellino e si diresse in paese,verso casa, ma giunto nei pressi della contrada de li Carosi, dove c’era una postazione di aerofonisti della Regia Marina, alcuni militi, che avevano udito le esplosioni provenire da quella direzione, chiesero cosa fosse accaduto. Cosimino riferì sull’episodio del bombardamento e proseguì poi verso la sua abitazione dove, tra la gioia e lo spavento dei familiari, raccontò nuovamente quanto accaduto. Nino, il fratello maggiore, imbracciò il fucile in spalla e montò in bicicletta per andare a vedere lo stato in cui versava il vigneto ma gli fu sufficiente giungere in prossimità della masseria Pastore, nel punto in cui la strada leggermente s’innalzava a formare una specie di dosso, per rendersi conto della devastazione compiuta dai bombardamenti sul suo campo. Non è difficile immaginare quel che Nino provò nel vedere il disastro di quel campo che era fonte di reddito e di sussistenza – e forse l’unica – di tutta una famiglia.
La raccolta di queste testimonianze sono parte delle tante fonti orali di quel periodo dalle quali è utile partire per fare uno studio approfondito in merito al ruolo del Salento negli anni della Seconda Guerra Mondiale e specialmente in quegli immediatamente successivi all’Armistizio. Molto diffusa è sino ad oggi, malgrado ottimi studi in merito, la convinzione del ruolo marginale della penisola salentina rispetto alle altre zone di guerra e ciò sia per l’assenza di movimenti resistenziali e sia per l’occupazione americana che rese anticipatamente tale territorio libero e sicuro. Di fronte a questo, però, la storiografia dimentica che la sicurezza del territorio salentino fu dovuta alla distruzione di numerose basi dell’Asse dislocate sul territorio, in previsione dello sbarco in Sicilia, il cui debellamento si ottenne a suon di bombe che mieterono, come sempre avviene, vittime anche civili. Salice Salentino, assieme a tantissimi paeselli salentini, è proprio uno di quei luoghi dove ancora è vivo il ricordo di quei terribili giorni e il rumore degli scoppi ancora echeggia tra i campi.