Michele ha 42 anni, è attualmente un cassaintegrato dell’ENI, ma rappresenta la terza generazione di una famiglia di pescatori.
“Mio nonno aveva ben due pescherecci, il “Santa Panagia” e la “Spada Aretusa”. Si chiamava come me. Qui il mare era pescoso, molto ricco di pesce. Mio nonno usciva ogni notte, pescava con la lampara. A me sembra impossibile oggi, ma lui diceva che pescava talmente pesce che a volte rischiava di rompere le reti, io non so se questo è vero o era una storia che raccontava a me quando ero bambino, ma una cosa è sicura, pescherecci qui ce ne erano tanti”.
Finiamo di bere un caffè al bar, poi saliamo in macchina direzione Augusta.
“Devo farti vedere una cosa”, mi dice Michele.
Arriviamo al Porto. Lo spettacolo è il solito deprimente groviglio di tubazioni e pontili industriali. Michele sospira.
“Da bambino venivo qui con mio padre e mio nonno, anche mio padre ha fatto per un periodo il pescatore. Qui era tutto diverso. Il porto di Augusta era eccezionale, perchè rappresentava uno dei pochi porti naturali della zona. Era facile attraccare e prendere il mare aperto, pescare e poi scaricare il pesce pescato, che poi si andava a vendere o a Catania o a Siracusa. Mio nonno, e mio padre con questo lavoro hanno cresciuto due famiglie. Ma le cose sono cambiate velocemente, appena sono arrivate le industrie. Innanzitutto ci hanno levato lo sbocco al mare, mio nonno spostò la flotta: una barca a Marina di Melilli, ed una a Siracusa. Ma i costi di gestione aumentarono, poi mio nonno ebbe l’artrite alle mani e dovette mollare il lavoro. Restò solo mio padre. Quando potevo, il fine settimana quando non avevo la scuola aiutavo pure io. Ma era impossibile continuare. Il pesce iniziava a puzzare di petrolio, come il mare. Appena lo pescavamo, la barca faceva puzza di nafta, poi quando lo pulivamo e lo mettevamo nelle cassette, veniva la nausea dalla puzza. Quando fu rasa al suolo Marina e il suo porticciolo sparì vendemmo una barca, e mantenemmo quella ormeggiata a Siracusa. Le ricciole che pescavamo non solo facevano puzza, ma avevano la pancia gonfia, le viscere piene di liquido grigio, c’è stata anche un inchiesta, poi non so come sia finita”.
Michele ha una voce sconsolata. Ci appoggiamo sul cofano della macchina, gli offro una sigaretta. Fumiamo di fronte ai camini fumanti della ESSO. Vorrei chiedergli cosa facessero allora di quel pesce, ma non c’è bisogno, perchè Michele ricomincia da solo, con voce ferma.
“A me sembrava che questi pesci erano quasi contenti di essere tirati fuori dall’acqua, te lo giuro, avevo questa impressione, neanche si dimenavano, tirati fuori si rilassavano, stavano in pace. Eravamo diventati non pescatori, ma becchini del mare. Li chiudevamo dentro dei sacchi neri e li buttavamo appena tornati a riva nella spazzatura, ma per dirtela tutta, gli altri pescatori o la buttavano in mare… oppure… ripulivano il pesce con l’ammoniaca e lo portavano ai mercati. Ma noi mai. Infatti chiudemmo l’attività: mio padre per un po’ lavorava saltuariamente in altre flotte, o sistemava le reti per i pescatori catanesi. Io, invece, come tanti miei coetanei a 18 anni entrai in fabbrica, proprio nella fabbrica che mi aveva distrutto l’attività… pazzesco, no?”
Saliamo in macchina e torniamo verso Priolo, Michele è già dieci minuti che tace.
Appena arrivati allo svincolo, dice: “Non doveva finire così. Questo posto, questo mare era bellissimo, in qualche modo vorrei tornare in mare, sa? Sto sistemando una barchetta di legno, tanto ora che sono in cassa integrazione, ho un sacco di tempo. L’ho chiamata la “Spada Aretusa 2”. Qualche sera esco in mare, da punta Magnisi, non per pescare, per carità… ccaia ppiscari! No, mi metto a largo, spengo il motore e guardo la costa, chiudo gli occhi e cerco di dimenticare quelle luci e quei fuochi perenni, cerco di ricordare la costa sabbiosa e bassa, le onde lente, l’odore di mare e di pesce fresco.
Ci hanno levato il mare, ci hanno rubato la vita”.
Testo di Salvo Messina
Voce e montaggio di Roberto Sammito
Musiche in Cc:
Jahzzar – Sea
N.E.W – Aleluya