Anna Lombroso per il Simplicissimus
Pare sia in crisi anche il brand del lutto: pubblicità severe, ma persuasive decantano vantaggiose rateizzazioni e previdenti investimenti per prepararsi a eventi più certi e indilazionabili di fondi e derivati, che peraltro in anni non lontani avevano cercato di occupare profittevolmente anche gli spazi della prospettiva di vita. Riti e liturgie si fanno più sobri, la tomba di famiglia resta un privilegio per pochi, alcuni die quali, più avidi, cedono porzioni ad alto prezzo non ai morti di Lampedusa, ma riservando una pietosa ospitalità a nuovi arricchiti alla ricerca di salotti buoni anche nell’aldilà. Solo alcuni sindaci pensano sia opportuno estendere i luoghi del dolore a accoglienze “dedicate”, come se non fosse già possibile dare degna e compassionevole sepoltura a creature che già lo sono, insieme ad altre creature. Intanto è in sofferenza anche il mercato dei crisantemi, degli orrendi fiori di plastica che farebbero risuscitare i defunti per via dell’oltraggio estetico. Pare che all’ingresso di solinghi e domestici cimiteri di paese non ci siano più i chioschi per gli ultimi acquisti prima della visita pietosa, penalizzato anche il riciclaggio operoso di rose, rivendute puntigliosamente nelle pizzerie a coppie al primo incontro. E pare che non si vedano più quelle esequie pompose, con le carrozze tirate da equipaggi di cavalli neri impennacchiati, dal lento incedere ritmato sulle marce funebri.
È che la crisi non solo riduce necessariamente i consumi, perfino quelli “estremi”. In realtà modera anche il pensiero della morte, esalta la potenza della vita, sia pure impoverita, incrementa l’attaccamento sia pure disperato a esistenze ridotte al minimo dei piaceri. Non c’è da scandalizzarsi per quanto ha attecchito la scemissima festa di Halloween, che facciamo anche che sia di origine celtica, è estranea a costume e tradizione locale, ma perfettamente in tono con la nostra contemporaneità, come le feste al tempo della peste e i monatti pronti a caricare sui loro carri i i ballerini che si schiantano a terra colpiti dal tremendo male, come le danze macabre nel passaggio da carnevale alla quaresima, come certi quadri di pittori veneziani o napoletani che hanno immortalato la gioia effimera profetica di morte dell’attimo fuggevole: moltitudini di persone che, come larve trasportate dall’istinto e dalla passione, si riversano vacillanti lungo le calli o sulle piazze come in una delirante autodissoluzione ebbra e sconsiderata, come in una fosce consapevolezza della decadenza.
Viviamo in un paese governato e detenuto da vecchi che si credono immortali e da giovani defraudati a un tempo della spensieratezza e del pensiero del futuro. E dove il pensiero della morte nel consumarsi di un rituale apotropaico, viene rimosso e allontanato tramite artificiali consolidamenti della giovinezza, a beneficio di chi può permetterseli, in nome di un’estetica di regime e di una rispettabilità somatica che vuole tutti levigati, scattanti, irsuti in testa ma depilati altrove, lisci, con corpi forgiati per piacere, più che per trarre piacere, per mostrarsi e per comandare.
È perfino banale dire che la ricerca di quella perenne giovinezza senza difetti, senza malattie, senza umanità corrisponde alla volontà di rifiutare il declino che annuncia l’aborrita morte e che profetizza quella livella che potrebbe renderci tutti uguali se anche la fine con dignità resta monopolio di chi può permettersi compostezza, comprarsi rispetto, conquistarsi una decenza negata nell’abbandono di corsie di ospedale , in case dove la malattia è un lusso e un impegno tremendo che pesa su famiglie sempre più povere, in un mondo che ha dimenticato quella solidarietà che c’è perfino tra le fiere che vivono in branco.