Luoghi diversi che forse non aiutavano a sviluppare la voglia di creare qualcosa, dove il far da soli era l’unica azione possibile, per soddisfare l’urgenza di lasciare una traccia sonora, che fosse un tape (audiocassetta) o un vinile.
Quindi vi lascio con le parole di Carlo Casale, cantante della band veneta dei Frigidaire Tango e di Daniele Ciullini fanzinaro e agitatore musicale fiorentino.
Carlo Casale, Frigidaire Tango
Ricordi e polemiche
Alla fine degli anni ’70 la distanza siderale tra musicisti e case discografiche era tanta da non prendere nemmeno in considerazione la possibilità di essere ascoltati. Ciò che le majors reclutavano erano soltanto cantanti adatti alla farsa Sanremese o prodotti creati e plasmati solo per essere venduti.
Le proposte alternative erano dunque in antitesi con il mondo discografico italiano. Agli inizi degli ’80 (comunque sempre di rimando) la cosiddetta nuova onda portò con se, oltre a un rinnovamento musicale, anche la necessità di rendersi indipendenti e trovare comunque il modo di diffondere le proprie opere.
Qualcosa cominciò a muoversi fuori dalle logiche di mercato, i Gaznevada (primo gruppo new wave italiano) avevano registrato il primo Lp per la neonata Italian Records che si ispirava alla britannica Rough Trade e nel contempo crescevano le piccole etichette che avevano già pubblicato qualcosa del periodo punk.
Durante la primavera del 1980 ci venne richiesto un demo dalla Young Records, un etichetta con un catalogo limitato al Blues e al Country Rock ma era pur sempre un etichetta e sembrava interessata a sperimentare nuovi generi.
Tenendo conto dei costi proibitivi degli studi di registrazione (circa 10 volte il costo attuale), per preparare un demo avevamo solo due possibilità: una registrazione in presa diretta (che hai tempi veniva considerata troppo poco fedele) o l’imitazione di un multitraccia usando registratori a cassette sovrapposti che ti davano la possibilità di sovraincidere qualche strumento in più in una specie di overdubbing fatto in casa. Chiaramente ogni passaggio prevedeva un aumento costante di fruscio ma almeno si aveva la sensazione di un lavoro più professionale. Il demo fu accettato e l’idea di far
Avemmo la fortuna che non lontano da casa venne inaugurato un nuovo studio, uno dei primi 16 piste della zona, ma ancora una volta i costi sembravano proibitivi. Decidemmo di economizzare registrando solo due brani più un terzo preso dal vivo e far uscire un EP, un formato molto comune all’epoca. Il risultato fu eccellente, grazie anche all’apporto di uno straordinario fonico che diventò in seguito il tecnico ufficiale dei Pooh. ll Pick up, noto negozio di dischi della nostra città, si prese l’impegno della distribuzione delle prime 2000 copie.
Era così dimostrato che stampare un supporto fonografico non era impresa impossibile, ma ciò che rendeva problematico il cammino per arrivare al fruitore era la difficoltà di avere il controllo della diffusione dello stesso.
Case discografiche e editori continuano a esistere perché, come si sa, raramente l’artista è avezzo alle logiche di mercato e il suo ruolo diventa quello dell’artigiano che inventa e plasma la propria arte ma che poco può fare per diffonderla.
Oggi tutti sappiamo che una piccola vetrina autogestita è possibile e la voglia di scoprire porta le persone in rete direttamente a tu per tu con l’artista, senza mediatori e senza pilotaggi, ma nel contempo lo stesso fatica ad avere un ben che minimo profitto che lo possa sostenere perché paradossalmente il supporto vendibile con la sua musica sta scomparendo e il famoso fruitore prima o poi potrà averla gratuitamente.
Da una parte sono davvero affascinato dall’idea che il sogno della prima rivoluzione giovanile si avveri: “La musica come tutta l’arte non può e non deve avere un prezzo” dall’altra mi rendo conto che autosostenersi, se non si è già ricchi, diventa impossibile.
Eppure una soluzione ci sarebbe se vivessimo in una società che tiene in considerazione l’arte come fattore imprescindibile per una crescita della cultura generale, atta a formare coscienze più sensibili che possano avere orizzonti diversi dagli standard della nostra collettività: “studio per lavorare, lavoro per produrre, produco per arricchirmi”, una società che supporti concretamente chi si dedica alla creatività perché i benefici ricadranno sulla stessa.
Nel nostro paese esistono, come in quasi tutte le democrazie, sistemi di finanziamento a fondo perduto, ma andate a vedere, se ci riuscite, come e a chi vengono distribuiti. Se a questo si aggiunge che la TV, che è ancora il mezzo mediatico più potente, tratta la musica al pari di un qualsiasi prodotto commerciale non c’è da stare allegri. Ci sono almeno sei canali dedicati, uno peggio dell’altro, che ti bombardano di video esclusivamente scelti e imposti da una logica di profitto che crea per forza di cose una sottocultura vergognosa.
Come diceva il buon vecchio Beck: “MTV Makes Me Want to Smoke Crack“.
Daniele Ciullini, fanzinaro
Presentare il proprio lavoro. Negli anni ottanta la produzione di un supporto fonografico era un passaggio obbligato. Senza rete e con rarissime emittenti radiofoniche che indagavano il territorio delle produzioni indipendenti era l’unica via per far circolare la propria musica. Al posto del web veniva usata le rete postale per proporre ai diversi distributori lavori musicali su audiocassetta che questi poi ascoltavano ordinandone un certo numero di copie. Sempre attraverso la posta avveniva la spedizione e il conseguente pagamento. Altra via era quella di produrre musica per esser allegata ad una fanzine in forma, quasi sempre, di compilation. Erano tutte pubblicazioni molto focalizzate su singoli aspetti dello scenario della cultura alternativa, così ogni realizzazione forniva uno spaccato piuttosto ampio, anche musicalmente, di quel certo aspetto. Rarissimi gli aiuti da parte di riviste musicali a grande diffusione che, al massimo, pubblicavano una sorta di classifica mensile delle produzioni indipendenti (fanzine e audiocassette).
Fare tutto da soli. Più che un imperativo teorico era una condizione reale. La maggior parte delle produzioni era “fatta in casa”, con pochi strumenti di fortuna o in prestito. La preparazione tecnica per la registrazione era poca e la qualità dei prodotti risentiva fortemente di questo. Però il suono aveva il fascino di una sua ruvida immediatezza, di una sincerità e di una passione spesso assenti da prodotti successivi e tecnicamente ben costruiti. Se in un primo momento le camere e i garage diventavano improvvisati studi di registrazione, nella fase successiva si trasformavano in altrettanti empirici studi di masterizzazione nei quali da un registratore a bobina partiva una catena di registratori a cassetta sui quali, con cassette al cromo (nel migliore dei casi), venivano duplicati i brani.
Daniele Ciullini, Domestic Exile Cover tape c20, 1983, autoprodotta, contenente libretto e quattro cartoline.
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- Frigidaire Tango
- Daniele Ciullini
Grazie per l’immagine dei Frigidaire Tango al Sig. Desbela