Mentre tutto bruciava, Micah li vide.La cittadina era una palla di fuoco, ultimo bagliore prima di migliaia di chilometri di acque buie e ipotermiche, le fiamme dita incandescenti a innalzarsi sotto il verde dell'aurora boreale.Chi era scampato all'incendio che stava consumando Dodebyen fino alle fondamenta si era dato alla fuga con zattere e mezzi di fortuna, sperando che la notte scandinava fosse sufficientemente clemente da lasciarlo vivere fino a raggiungere i fiordi della costa.Le quattro ombre si stagliavano contro il braciere più grande, quello della piazza centrale.Falene pensò Micah,. Falene attratte dal fuoco. La luce li affascina.Avanzò lungo quella che era stata la strada principale del villaggio, il crepitio onnipresente copriva il rumore dei suoi passi.I quattro parevano non accorgersi della sua presenza e continuarono a guardare le fiamme, uno di fianco all'altro. Micah si domandò cosa vi vedessero all'interno, cosa provassero quelle coscienze inumane. Se si fossero voltate, avrebbe letto gioia nei loro occhi? Felicità per l'atrocità appena commessa e per le centinaia di vite carbonizzate o assiderate, che avrebbero vagato per l'oceano come tronchi di ghiaccio? Avevano degliocchi?
Strinse nella mano destra il frammento di lamiera affilato. La parte che impugnava gli stava ferendo il palmo, il sangue colava sulla neve. Se ne rendeva conto a malapena, perché non aveva importanza: se non fosse riuscito ad avere la meglio su quegli esseri, allora sarebbe morto anche lui. E se non fosse stato deciso a combattere, sarebbe scappato con gli altri.Dubitava che qualcuno si sarebbe preso la briga di ricostruire sulle macerie, per Dodebyen quella notte segnava la fine. Chi viveva su quell'isola gelida, collegata alla terra da nient'altro che cinquecento metri di ponte di legno, lo faceva perché il sangue che scorreva nelle sue vene era quello di generazioni nate e vissute lì, su quello scoglio che nessun altro avrebbe potuto chiamare “casa”.Ora gli abitanti di Dodebyen erano bruciati e nessuno sarebbe venuto a reclamarne la terra. Micah si domandò se qualcuno dei superstiti sarebbe riuscito ad arrivare in salvo e raccontare quello che era successo. Probabilmente no, si rispose.Lui non era nato a Dodebyen, ma lì l'aveva condotto il suo lungo peregrinare. Su quell'isola inospitale il giovane aveva trovato un inaspettato tepore, la prima sensazione di legame da quando, poco più che in fasce, assieme ai suoi genitori era stato costretto ad abbandonare la terra natia.La prima volta che aveva attraversato il ponte aveva avuto quattordici anni, era solo e infreddolito; la comunità lo aveva accolto e nei tre anni successivi era diventata la sua comunità.Poi, quel pomeriggio, il varco nel campo si era aperto e i Quattro erano emersi.Locuste. Non falene.L'incubo aveva avvolto Dodebyen e il fuoco aveva estirpato la vita. Agnes, Eskil, il signor Andreassen, erano tutti morti. Micah era l'unico rimasto e anche ora, a non più di cinquanta metri dalle creature che avevano drenato la città, si ripromise che avrebbe fatto il possibile per vendicare i suoi amici. Sarebbe morto, questo era certo, ma se fosse riuscito a portarsi via almeno uno dei Quattro... magari due...Avanzò, piano. Con la coda dell'occhio vedeva la luce degli incendi allungare la sua ombra sulla strada. Aveva il volto sudato e accaldato.Un passo. Un altro ancora. Loro continuavano a ignorarlo, rapiti dai bagliori. Strinse ancora di più l'arma, affondandola di più nella carne ma rendendo la presa migliore.Più vicino, ancora più vicino: i roghi ai margini della sua visuale si contrapponevano alla furia glaciale che lo pervadeva, sentiva il bisogno di affondare la sua lama nel corpo di quei mostri, di ucciderli come loro avevano ucciso tutti i suoi...Poi lo udì. Attenuato, nascosto, ma inconfondibile. Guardò la casa in fiamme alla sua destra, da dove era provenuto il suono. Si prolungò per un attimo, poi tacque. Il ragazzo tornò a guardare le creature nere e l'odio dentro di lui si fece più forte. Si disse che non si sarebbe tirato indietro, non ora.Poi il bambino pianse di nuovo e il fato di Micah fu scelto: era pronto a dare la sua vita per eliminare quei mostri, ma non quella di un'innocente. Lasciò cadere la sua arma e corse dentro l'abitazione.
Nell'istante in cui varcò la soglia la temperatura del suo corpo si alzò di una decina di gradi; tossì per il fumo, sentì la pelle dolere e gli occhi riempirsi di lacrime. L'ingresso e la piccola stanza adiacente erano una danza di fiamme così intense da costringerlo a puntare lo sguardo a terra.Sentì ancora il pianto, proveniva dal piano di sopra. Corse su per le scale, restando chino per evitare il più possibile le esalazioni, e quando mise piede sul pianerottolo sentì il richiamo disperato dalla prima stanza sulla destra.Vi si gettò e cercò con lo sguardo la fonte del suono. Capì due cose, ovvero il motivo per cui il piccolo era ancora vivo e perché avesse sentito la sua voce provenirgli così ovattata: la culla in cui si trovava si era rovesciata di lato, cadendogli sopra e fornendogli un improbabile riparo dal calore e dal fuoco. Sollevò il giaciglio e il neonato fu libero di strillare al mondo tutta la sua paura, Micah lo prese in braccio e sentì che scottava. Riparo o no, pensò, mezz'ora al massimo e sarebbe stato troppo tardi.Col bambino tra le braccia uscì dalla stanza, stava per correre giù per le scale quando lo sguardo gli cadde su un armadio ancora intaccato dall'incendio ed ebbe un'idea. Aprì l'anta con la mano libera, trovò quello che sperava e pensò che, tutto sommato, nella disgrazia la sorte aveva deciso di strizzargli l'occhio. Lo sguardo gli cadde sulle iniziali ricamate sulla spessa coperta e capì che si trovava in casa di Jakob Hagen, il proprietario della taverna, e che quello che aveva in braccio doveva essere il piccolo Erik.Scese le scale con il bambino da una parte e la trapunta dall'altra, attento che quest'ultima non si incendiasse svolazzando nei punti sbagliati.Raggiunse la soglia, la freschezza della sera un'invito irresistibile a gettarsi all'aperto e sfuggire a quel caldo. Ma prima di uscire si costrinse a fermarsi, per pensare.Non avrebbe perso tempo a cercare Jakob: era certo che fosse morto, perché mai avrebbe abbandonato suo figlio a morire carbonizzato. Quello che poteva, che doveva fare era raggiungere il molo, sperare che fosse rimasta almeno una delle zattere che vi erano ormeggiate e calarvisi all'interno, avvolgersi nella coperta e pregare di riuscire a mantenere calore a sufficienza per sé e per il piccolo fino all'arrivo. Poteva funzionare, se il destino fosse stato dalla sua parte una volta ancora.Prima però bisognava convincere Erik a fare silenzio. I Quattro erano ancora lì fuori ed era certo che, sentendo il pianto del bambino, sarebbero accorsi a portare a termine l'opera.Prese a cullarlo, a dirgli “shhh shhh”, ma il bambino continuava a strepitare. Micah non poteva dargli torto, visto quello che stava passando. Oltretutto, temeva che il freddo improvviso potesse dare il colpo di grazia all'organismo del piccolo Erik.Ora che la scarica di adrenalina si andava esaurendo, Micah tornò fin troppo cosciente del caldo che lo stringeva come una mano torrida. Decise che non poteva più aspettare e prese una decisione drastica: ficcò Erik nella coperta e uscì in punta di piedi.
Loro erano lì, come previsto, imperterriti davanti al fuoco, quattro alfieri di tenebra contro la luce violenta. Stavolta Micah non sentì rabbia, ora il desiderio di vendetta era sopito e al suo posto c'era l'urgenza di allontanarsi il più in fretta possibile, senza far rumore, senza farsi notare.Il bambino aveva miracolosamente smesso di piangere, forse gratificato dal tocco freddo dell'aria sul corpo accaldato. Micah si concesse di sperare che avrebbero potuto farcela. S'incamminò dalla parte opposta a quella dei Quattro, mettendo un piede dopo l'altro evitando le pozzanghere di neve sciolta. Continuava a voltarsi ogni pochi passi per tenere d'occhio le creature, finché tagliò la testa al toro e prese a marciare all'indietro, senza staccare mai di dosso alle ombre che divenivano via via più piccole, e al diavolo le pozzanghere.Posso farcela pensò Micah. Posso farcela davvero.Poi Erik ricominciò a piangere.
Fu come se accadesse al rallentatore e chissà, per quel che ne sapeva Micah magari era così. Quello più a destra dei Quattro si voltò e lo vide. Micah rimase paralizzato, osservando il buio amorfo che l'essere aveva per volto. Intorno alla sua figura, si accorse, la realtà si sfocava, le fiamme retrostanti si facevano confuse.Prima che potesse chiedersi cosa significasse, la cosa alzò il palmo verso di lui.In piedi in mezzo alla strada, con un neonato tra le braccia, Micah sognò.
C'era un ragazzino. Aveva i capelli corti e biondi e gli occhi azzurri. Gli stava di fronte e lo guardava. Nella certezza onnicomprensiva dei sogni, Micah sapeva che si trattava del bambino che aveva tenuto tra le braccia... quando? Quando era stato? Non ricordava. Ricordava la luce, un fuoco forse, ricordava di stare scappando da qualcosa...Il ragazzino lo guardò e per un attimo i suoi occhi cambiarono colore. Non in modo uniforme, bensì come se una goccia di inchiostro fosse caduta al centro di in un lago e si fosse espansa a ricoprirne l'intera superficie, per poi essere scacciata da una seconda goccia che ne ripristinava l'azzurro originale.«Non mi hai salvato» disse il ragazzino.«Sì invece! Ti ho portato via...» si interruppe, accorgendosi di quanto fosse diversa la propria voce, che assomigliava più a quella di un uomo che a quella di un ragazzo.«No» rispose l'altro, scuotendo la testa, «Credevo che mi avresti portato al sicuro, ma non è andata così. Hai lasciato che mi prendessero.»Di nuovo le sue iridi cambiarono colore, stavolta fu come una pulsazione, come se dentro il suo corpo si nascondesse una tenebra fitta che cercasse di riversarsi all'esterno attraverso i suoi occhi.Azzurro, nero, ancora azzurro.«No» piagnucolò Micah, «io non volevo... io...»E poi si accorse che non erano soli, lui e il ragazzino. C'era qualcun altro, una terza presenza, la avvertiva ma non riusciva a vederla. Era qualcosa di cattivo. Un tumore. Un...Un parassita?«Dov'è?» gridò, «Dove si nasconde?»Il ragazzino alzò un dito e se lo portò al centro del petto.
Immagini: una donna vecchia con un mazzo di carte. Una linea di luce dentro cui si agitano delle figure. Una rosa posata su un prato.Guardò la rosa, e mentre la fissava i suoi petali si coprirono di brina per poi congelarsi; il ghiaccio passò allo stelo, quindi all'erba sottostante e da lì si diramò in ogni direzione, ogni cosa divenne di cristallo. Quando tutto fu congelato, il mondo si spezzò.
Quando tornò in sé i fuochi erano spenti e nel cielo brillavano le stelle della notte. Dei Quattro non c'era traccia, la città era un cumulo di detriti carbonizzati. Guardò le proprie braccia, strette attorno a una coperta fradicia.“Hai lasciato che mi prendessero”Micah rimase immobile a fissare il punto dove alcune ore prima era arso il più grande fuoco che Dodebyen avesse mai conosciuto.Si accorse di stare tremando per il freddo. Strizzò la trapunta meglio che poté e se la gettò sulle spalle, quindi si incamminò verso il molo. Spinse in acqua la zattera e vi si accoccolò dentro.Due ore dopo il legno toccò la costa.