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L’australiano Robert Luketic, regista de La rivincita delle bionde (2001), Quel mostro di suocera (2005) e La dura verità (2009), è specializzato in pellicole di intrattenimento (di solito commedie) frivole, prive di spessore e tendenzialmente dense di stereotipi. Nonostante la presenza di due attori del calibro di Kevin Spacey e Laurence Fishburne, 21 (2008) non fa certo eccezione.Il riservato Ben Campbell (Jim Sturgess) è tra gli studenti più brillanti del M.I.T., una delle maggiori università al mondo nella ricerca tecnologica, ed ha come sogno nel cassetto quello di iscriversi, concluso il suo corso di studi, alla prestigiosa facoltà di medicina di Harvard. L’iscrizione è troppo onerosa per le sue modeste disponibilità economiche, ma gli si presenta un’occasione d’oro: un cinico professore universitario (Kevin Spacey) lo invita ad unirsi ad un gruppo di studenti da lui formato che, applicando un sofisticato sistema di conteggio delle carte, durante i fine settimana si trasferisce nei casinò di Las Vegas per vincere migliaia di dollari al tavolo del Blackjack. Qualcosa però inizierà ad andare storto.
La prima parte del film, che si ispira alla storia vera raccontata nel libro Blackjack Club di Ben Mezrich (dall’ultimo lavoro dello stesso scrittore è stato tratto The Social Network di David Fincher), è piuttosto prevedibile e gioca su una serie considerevole di luoghi comuni. Poi qualche discreto colpo di scena lo risolleva, traghettandolo tuttavia verso un finale banale e molto deludente nella sua calcolata puerilità. Il target di 21 è dichiaratamente il mondo dei teen-ager, che si presume possa rimanere affascinato dall’idea di poter arricchirsi e avere successo con le ragazze grazie al gioco d’azzardo. La regia (comunque accettabile), così come la fotografia eccessivamente patinata di Russell Carpenter, ammicca costantemente al gusto adolescenziale, ad esempio indugiando nei primi minuti della pellicola su fiches, carte da gioco e tavoli di roulette con degli improbabili movimenti di macchina al ralenti. Non c’è dunque da stupirsi che la sceneggiatura di Peter Steinfeld e Allan Loeb, nonostante presenti qua e là qualche divertente scambio di battute, sia nel complesso priva di verve e non conferisca ai personaggi alcun tipo di approfondimento psicologico, dimostrandosi totalmente mancante di profondità.
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