News degli ultimi giorni: la Fiat sta preparando il debutto a Wall Street del gioiello di casa Agnelli, la Ferrari.
La notizia, in sè, non avrebbe nulla di interessante per il lavoratore medio, se non fosse per l'acclusa "minaccia": un'eventuale crescita dei salari, in Italia, spingerebbe la casa torinese a spostare la produzione della Rossa, in altri Paesi. Ci risiamo, il metodo Marchionne torna a colpire: "fate come vogliamo, o ce ne andiamo".
E' un curioso caso che una notizia del genere faccia la sua comparsa, proprio in questo periodo. Il 23 luglio del 1993, esattamente 22 anni, il Governo Ciampi e le parti sociali firmavano un accordo, che aveva l'obiettivo di tutelare i salari dall'andamento dell'inflazione. Un tentativo di combattere la crisi economica, in cui si dibatteva l'Italia di quegli anni. Un periodo difficile, che impose scelte difficili che, con il tempo, hanno creato i problemi di oggi.
Secondo una ricerca della CIGL, infatti, è proprio dal 1993 che i salari dei lavoratori italiani hanno cessato di crescere, perdendo terreno a causa dell'aumento continuo del costo della vita, della tassazione e delle disparità sociali.
Questo stallo ventennale è costato al lavoratore medio italiano, conti alla mano, circa 6310 euro in meno l'anno, in busta paga. Un bel gruzzolo, non cè che dire, ma che impallidisce di fronte all'altro dato sui salari, quello sulle diseguaglianze: un lavoratore dipendente, infatti, percepisce circa 1300 euro netti al mese; cifra ridicola se si pensa che un top manager può arrivare ad incassare uno stipendio di circa 300 mila euro mensili.
Una differenza enorme, che ha conseguenze a tutti i livelli. I tagli continui a scuola e sanità pubbliche, ad esempio, di pari passo con la contrazione degli stipendi, stanno portando il costo di assistenza medica e istruzione a livelli difficilmente accessibili, non solo per le fasce più povere del Paese, ma anche per la classe media.
In questi 22 anni, quindi, tutto è cambiato e non sempre in meglio: abbiamo visto succedersi tante – troppe – riforme del lavoro (la legge Biagi, la Riforma Fornero ed il Jobs Act), che hanno fatto scomparire le certezze del passato (Articolo 18 e posto fisso), sostituendole con l'incertezza del tempo determinato e del precariato.
In questi due decenni, in tanti si sono riempiti la bocca di paroloni come riforme, flessibilità, abbattimento del costo del lavoro: miracoli economici che dovevano portare, nientemeno, che a sfiorare la piena occupazione, a modernizzare il Paese, a portare l'Italia sullo stesso livello dei partners globali. Miracoli che, da due decenni, non si vedono.
Intanto, abbiamo visto il mondo del lavoro scivolare, piano ma inesorabilmente, verso l'apatia: 22 anni fa, la minaccia – neanche tanto – velata di Marchionne avrebbe fatto inorridire tutto il Paese, accendendo fior di polemiche. Oggi, invece, un senso di fatalità spinge i più a dire "protestare? Tanto cosa cambia, fanno tutti così".
Vero, la lista delle aziende che prendono armi e bagagli e si spostano verso lidi più convenienti (Est Europa, Cina, India, ecc.) è ormai chilometrica, mentre la politica italiana, quella della Seconda Repubblica nata, guarda caso, proprio nei primi anni '90, rimane chiusa in se stessa e nelle sue beghe interne, infischiandosene della deriva economica.
E' la globalizzazione, bellezza: comandano i mercati. Le aziende vanno dove è più conveniente produrre, in Paesi dove lo sfruttamento esiste di fatto, se non di nome; dove il salario medio italiano di 1300 euro è una chimera, anche solo impossibile da sognare. Ma a qualcuno interessa? Sembra proprio di no!
Cosa sarebbe successo se il demansionamento, le cui dinamiche rischiano di diventare una terribile arma di mobbing, fosse stato introdotto 22 anni fa? Avrebbe suscitato polemiche? Rabbia? Proteste? O come, invece, accaduto ai nostri giorni, sarebbe stato accolto con un misto di indifferenza e rassegnazione?
Non pensate che questo articolo sia un elogio del passato: nel 1993, il mondo non era né migliore né peggiore di quello attuale. Pensate, piuttosto, che si tratti di uno sfogo amaro: possibile che siano davvero bastati solo 22 anni, per gettare il mondo del lavoro italiano nell'apatia e nella rassegnazione?
Danilo