“Partire. Così parti e senti questo bisogno di girarti a guardare, una volta ancora il tramonto che muore, una volta ancora quel severo profilo del New England, le guglie, la Cisterna, Paul con l’ascia in spalla. Ma forse non è una buona idea girarsi a guardare, è così in tutte le storie. Guarda che cos’è successo alla moglie di Lot. Meglio non guardare. Meglio credere che per tutti ci sia un lieto fine… e così sia. Chi può sostenere il contrario? Non tutte le barche che salpano nelle tenebre non ritrovano più il sole o la mano di un altro bambino; se la vita insegna qualcosa, ti mostrerà allora che le storie a lieto fine sono così numerose che è lecito dubitare della razionalità di chi non crede nell’esistenza di Dio.”
Così scriveva King nel lontano 1986, affidando al lettore le ultime pagine di It. Venticinque anni dopo, esatti esatti, il Re sceglie invece di tornare a Derry, e – con un romanzo dal titolo in apparenza (soprattutto) collettivo e storico – di riaprire il senso delle riflessioni profonde sul passato, i fili di un racconto lasciati in sospeso, il libero arbitrio, la responsabilità del ricordo che diventa desiderio, attraverso un romanzo che parla della storia di tutti e di J.F. Kennedy, ma in realtà parla anche e soprattutto di uno solo, che si chiama S. King. Da questo punto di vista il titolo del libro, con quella data, a Dallas, scritta e incisa un po’ ovunque, rappresenta una identità contraffatta né più, né meno di quella del suo protagonista George Amberson, perché sulla scia ucronistica della storia che non si cambia, dell’effetto farfalla, delle stringhe temporali che si intrecciano, King scrive di Dallas, ma in realtà la testa è a Derry, si interroga su Kennedy, ma in realtà parla di It. Nel fare questo sceglie di mettere mano, ma con leggerezza (perché altrimenti i paradossi da controllare cimentandosi nella science fiction sarebbero troppi – e non è questo, ancora una volta, che interessa), all’intero armamentario necessario per costruire una ‘what if’ story: le regole ferree da rispettare sempre e comunque, la storia che resiste al cambiamento, l’imponderabilità delle conseguenze di ogni singola azione. Jake Epping dunque scende nel passato (letteralmente, è il caso di dirlo) attraverso una Carrolliana (ma che fa anche tanto Matrix) “buca del coniglio”, per ritrovarsi (è una delle condizioni necessarie di questo specifico viaggio nel tempo) sempre alla stessa ora di una mattina di settembre del 1958: prima di molti buchi neri dell’America (la crisi di Cuba, l’assassinio di Kennedy, il Vietnam, giù giù fino all’11 settembre), ma dopo – come il lettore avrà ben presto modo di rendersi conto – che nella sperduta città del Maine di Derry un gruppo di bambini coraggiosi, solitari ed eccentrici ha sferrato il primo colpo semi-mortale a un mostro originario chiamato “It”. Il viaggio nel tempo si trasforma allora in quello del lettore stesso, che viene catturato nel vortice della curiosità di sapere “che cosa altro è successo”, del possibile cambiamento, di una riflessione sul ruolo e la responsabilità del singolo all’interno di (ogni singola) storia. Così il viaggiatore nel tempo incontra Beverly e Richie, a Derry, almeno in una delle due volte nelle quali ripeterà il suo viaggio, e riceverà da loro non solo informazioni preziose per continuare la sua missione (im)possibile, ma anche un’immagine guida che farà poi da filo conduttore, inconsapevole, per la sua storia personale. Che continua, dopo Derry, inesorabile verso il Texas: e verso l’incontro con la storia collettiva, quella vera, e il mondo maniacale, violento, ma paradossalmente stralunato di Lee Oswald, ma anche e soprattutto una sua propria trama di vita individuale. Sfilano così l’amore, e la realizzazione, ripetuta, nel suo lavoro di insegnante (che il nuovo-vecchio George Amberson riprende con convinzione, seguendo le tracce di Jake Epping, e dimostrando così che non si sfugge, in ogni caso, al proprio singolo e definito essere-nel-mondo). E certo, poi, progressiva, surrettizia, pure la politica: con i pedinamenti di Oswald, la consapevolezza di una missione da compiere, lo spasmo, ripetuto, del passato che non vuole essere cambiato e che combatte, fino alla sua realizzazione all’ultimo minuto utile, con molti accidenti nel mezzo e un deciso punto di domanda sulle future conseguenze nella storia mondiale. “Meglio non guardare” – aveva ricordato il narratore di It attraverso lo sguardo di Bill Denbrough. Il passato è passato: non vuole, né può (né deve) essere cambiato e (dunque) non si cambia. “Meglio che per tutti ci sia un lieto fine… e così sia”. Il grande romanzo di fanta-politica si rivela così come il più personale e idiosincratico di tutte le opere di King (che recupera in questo modo il senso originale della fantascienza utopica come strumento di indagine filosofica del mondo riproposto da Jameson nel suo splendido saggio sulle “archeologie del futuro”) . Tant’è che stupiscono le osservazioni e le polemiche legate più specificamente alla questione Kennedy, dal momento che – se pure lo stesso autore si concede una postfazione in cui rivela di essere (ma molto pianamente, e da semplice cittadino colto, informato e osservatore intelligente, senza alcuna pretesa di togliere il loro mestiere agli storici) assolutamente contro ogni teoria del complotto – risulta abbastanza evidente come King scelga di presentare l’assassino di Kennedy, nell’ultimo faccia a faccia, decisivo, con George Amberson, come una esplicita incarnazione simbolica dei mali del mondo, l’ennesimo travestimento (del resto, sul parallelo Dallas/Derry e Book Depository/Ferriere Kitchener il romanzo insiste a più riprese, con allusivo puntiglio) della malvagità di It.
E allora è inutile chiedersi come andrà a finire la partita con il passato che (non) si cambia, perché forse George Amberson no, ma Richie e Bev (che lui ha incontrato a Derry), e il lettore con loro, lo sanno già da tempo: indietro non si torna, e, se la cosa che dorme sotto Derry (ma forse, questa è la nuova informazione rivelata dal romanzo, sotto l’America tutta) non verrà distrutta per davvero, e consapevolmente, altri eventi potranno succedersi, catastrofe dopo catastrofe, per nutrire la fame del mostro che giace sotto la superficie del mondo, incarnazione simbolica che è insieme individuale e collettiva. La fine del viaggio, dunque, prevedibilmente, coincide con il suo inizio (anche se in mezzo ci sono un po’ di paradossi, e si sovrappongono le stringhe, e la buca del coniglio, che ovviamente sa di Alice in Wonderland, rimanda esplicitamente anche a Matrix anche per l’evocazione di quello che i Wachowski rappresentavano col deja-vu del protagonista, e che King chiama ‘armonie’). Del resto, lo dice anche la letteratura dei mondi possibili (anche quella evocata con puntiglio): dal paese delle meraviglie, così come da Neverland, bisogna tornare e (dunque) si torna: e Dorothy Gale lo ha insegnato all’America e poi a tutti: “There’s no place like home”.
“Parti e cerca di continuare a sorridere. Trovati un po’ di rock and roll alla radio e vai verso tutta la vita che c’è con tutto il coraggio che riesci a trovare e tutta la fiducia che riesci a alimentare. Sii valoroso, sii coraggioso, resisti. Tutto il resto è buio”.
ps. con questo post la ‘povna partecipa al primo turno dell’anno dei Venerdì del libro di Homemademamma.