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In Isole, il secondo dei capitoli di Caro Diario, c’è uno straordinario Renato Carpentieri che interpreta Gerardo, «un amico [di Nanni Moretti] che si è ritirato lì [a Lipari] undici anni fa [e che] da allora sta studiando solamente l’Ulisse di Joyce». Gerardo vanta con orgoglio di non guardare mai la tv («Mai, sono trent’anni che non la guardo più»), ma è accompagnando l’ospite in un giro per le Eolie, alla ricerca di un’isola in cui poter lavorare in pace, che incappa in una puntata di Beautiful che fatalmente lo incanta da un televisore acceso a bordo di un traghetto. Un Ulisse che cede al canto delle Sirene, potremmo dire. In un niente, Gerardo diventa teledipendente, al punto che alla fine dell’infruttuosa ricerca del posto giusto dove trovare un po’ di concentrazione, approdando ad Alicudi, «l’isola più lontana, l’isola più selvaggia», dove non arriva l’energia elettrica e dunque neanche la tv, è preso da una violenta crisi d’astinenza, e fugge via, imprecando contro Enzensberger e Popper: ma quale zero-medium, ma quale unftaithful servant, la tv è l’Omero dei tempi moderni. Calcando un po’ la mano, com’è naturale quando si vuole pungere sul vivo, Brunella mi ha paragonato a Gerardo per l’attenzione che durante le vacanze di fine anno ho dedicato alle dodici puntate di Gomorra, la serie televisiva tratta dall’omonimo volume di Roberto Saviano, andata in onda l’anno scorso su Sky Atlantic e da me allora fieramente snobbata. È cominciato coll’incappare in una parodia della saga dei Savastano (The Jackal), la curiosità m’ha portato all’originale (su Youtube ho trovato tutte le puntate della prima serie) che ho letteralmente divorato con godimento non inferiore a quello provato qualche anno fa, quando m’incapricciai della Congiura dei Pazzi sprofondandomi nella lettura di tutto ciò che ne era stato scritto. Quando poi sono passato a colmare un’altra enorme mia lacuna tra i fondamentali, guardando tutte le puntate della prima e della seconda serie di Romanzo criminale, che fino a quel punto avevo sempre evitato anche di striscio, ho avuto serio conflitto interno e, temendo di scivolare sempre più in basso, semmai arrivando ai Sopranos, ad House of Cards e Dio solo sa a cos’altro, ho messo fine all’andazzo, mi sono ricomposto e per punizione mi sono inflitto la rilettura dell’Estetica di Benedetto Croce. E però bisogna dirlo, Stefano Sollima è un gran figlio di puttana. Come sirena, dico, ha un canto ammaliatore niente male. Un poco ti vergogni a dire che sa cucinare intingoli da farti sbavare, anzi, te ne vergogni assai, ma, quando capisci che devi cominciare a vergognarti, è tardi: l’hai fatto e t’è piaciuto. E allora ti castighi considerando che «l’arte contemporanea, sensuale, insaziabile nella brama dei godimenti, solcata da torbidi conati verso una malintesa aristocrazia che si svela ideale voluttuario o di prepotenza e crudeltà, sospirando talora verso un misticismo, che è altresì egoistico e voluttuario, senza fede in Dio e senza fede nel pensiero, incredula e pessimistica, e spesso potentissima nel rendere tali stati d’animo, quest’arte che i moralisti vanamente condannano, quando sia poi intesa nei suoi profondi motivi e nella sua genesi, sollecita l’azione, la quale non volgerà certo a condannare, reprimere o raddrizzare l’arte, ma a indirizzare più energicamente la vita verso una più sana e profonda moralità, che sarà madre di un’arte più nobile di contenuto e, direi anche, di una più nobile filosofia», ma poi fanculo Benedetto Croce, che solo per il tempo che ti ha fatto perdere dovresti spararlo in bocca.
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