1998. Karima è una fotografa di origine algerina trapiantata in Francia, il suo lavoro la appassiona, le ha dato notorietà internazionale e grandi soddisfazioni. Ma c’è come un nodo in lei, che la blocca, e dalle sue opere, classicamente molto belle e insieme gelidamente idealizzate, si vede. Un giorno riceve una telefonata dalla madre: è davvero disperata per rivolgersi a lei, che non sente da oltre vent’anni. Le chiede di tornare alla casa da cui era fuggita, ha bisogno di aiuto. Fin dal colpo di stato militare del 1992 l’Algeria è sempre più devastata da stragi e attentati da parte dei fondamentalisti islamici. Appena giunta nella dimora così carica di ricordi, alcuni dolcissimi, altri atroci, Karima viene a conoscenza che il padre è in agonia e che il fratello Murad è stato arrestato con l’accusa di attività terroristiche, condannato a morte e recluso in una prigione di massima sicurezza. Inizialmente ritrosa, dovrà affrontare dure prove, interrogarsi sulla propria identità e chiudere finalmente i conti col proprio passato per affrontare davvero il futuro.
PARFUMS D’ALGER è un film non facile nel tema, ma facile da amare: è una storia molto coinvolgente con una grande protagonista. Karima è una donna sradicata, dal passato molto doloroso, che però senza piangersi addosso ha deciso di lasciare una famiglia benestante e conservatrice e di prendere il proprio destino nelle sue mani. Tornata contro voglia a quella patria di cui ignora la recente realtà, che non ha dimenticato ma che rifiuta, a partire dalla lingua (si rivolge alla madre in francese, e lei le risponde, ostinatamente, in arabo), tutto per lei cambia, la sua scala di valori ne esce mutata per sempre. Scopre attraverso la sofferenza sua e delle donne più care e più vicine a lei – la giovane cugina a cui i vicini di casa hanno sfregiato le gambe con l’acido perché portava una gonna ritenuta troppo corta, la cognata uccisa dai terroristi sotto i suoi occhi – che vale la pena di restare, e lottare, per cambiare le cose.
Il regista algerino Rachid Benhadj si è laureato a Parigi in architettura e poi all’École de Cinéma; ha diretto film e documentari per la tv algerina prima di trasferirsi a Roma una ventina d’anni fa. La sua formazione e la sua esperienza di vita sono molto visibili in questo suo sesto lungometraggio, di cui ha scritto anche la sceneggiatura: una storia solida, con personaggi ben definiti e ricchi di sfumature, immersa in recenti fatti storici avvenuti a due passi da qui di cui noi italiani colpevolmente conosciamo troppo poco, è offerta allo spettatore in modo pulito, senza manicheismi. Da ottimo pittore quale inoltre è, si è poi trovato un direttore della fotografia coi controfiocchi. In ogni inquadratura si riconosce l’occhio incantatore di Vittorio Storaro: nei momenti quasi onirici dei ricordi d’infanzia di Karima, con l’amatissimo fratellino Murad, nel magico giardino di casa; nelle luci e ombre dell’incredibile, archetipica fortezza-prigione; nel secco realismo dell’atroce scena dell’agguato terrorista.Ulteriore bonus del film è l’intensa interpretazione di Monica Guerritore, che recita scorrevolmente in francese e in arabo e dà agli sguardi di Karima mille sfaccettature – lo stupore, la sfida, l’ira, la disperazione, l’orgoglio – in questo inno alle donne, alla loro capacità di cambiare il mondo con la dolcezza.