La voce fuoricampo di un uomo racconta come ha conosciuto una ragazza bellissima, di averla profondamente amata anche se non le hai mai detto quanto, di come l’ha sposata, l’ha profondamente delusa, l’ha perduta.
Siamo in Sri Lanka, la guerra fra l’esercito governativo e i guerriglieri Tamil è terminata da poco. Sarathsiri è un uomo solo e taciturno; gestisce un banco dei pegni e conduce una vita riservata nel modesto appartamento situato al primo piano dello stesso edificio. Selvi è una giovane rifugiata Tamil, bella ma povera e in cerca di lavoro. Come molte altre persone in difficoltà economiche, si reca più volte al banco dei pegni per ottenere soldi in prestito in cambio dei suoi modestissimi gioielli.
Ammaliato dalla sua bellezza, incoraggiato dalla sua dignità quando, orgogliosamente, rifiuta un prestito senza pegno, Sarathsiri prende informazioni su di lei e scopre che è orfana e che, per non pesare su chi la ospita, si è rassegnata a sposare un vecchio vedovo. Si offre così di prenderla in moglie e Selvi accetta: il fatto che lei sia cristiana e lui buddista non sembra essere un ostacolo. Selvi è gentile e affettuosa con quest’uomo che la tratta con freddezza, pare imbarazzato dalla sua timida passionalità, né sembra apprezzare la gioiosa freschezza arrivata insieme a lei nella sua triste casa.
Un giorno si presenta uno sconosciuto che le confida di essere un commilitone di suo marito e di dovergli la vita. Selvi è sconvolta: suo marito faceva parte dell’esercito che ha stuprato e massacrato la sua gente, che ha ucciso i suoi due fratelli, imprigionato e probabilmente ucciso i suoi genitori. Affronta il marito, lui si discolpa, in lacrime le dà spiegazioni che a lei non bastano. Tempo prima in fondo a un armadio aveva trovato una pistola, ora ne conosce la provenienza: la notte decide di sparargli, ma non ne ha il coraggio. E il giorno dopo viene presa prima da una febbre altissima, poi da un delirio che per giorni la consuma. Sarathsiri è disperato; per questa donna amatissima, ora che sente di stare per perderla compie un atto quasi folle: sapendo quanto a lei pesasse quell’attività da usuraio, si libera del banco dei pegni; potranno fare il viaggio in India che lei sognava, in cerca dei suoi genitori. Ma ormai è troppo tardi.
Il regista teatrale, oltre che cinematografico, Prasanna Vithanage ha tratto la sceneggiatura di questo suo settimo lungometraggio dal racconto LA MITE di Fëdor Dostoevskij, che già aveva ispirato Robert Bresson per il suo capolavoro COSI’ BELLA, COSI’ DOLCE. A fronte di un’attenzione speciale per i particolari, un magnifico uso delle luci e soprattutto una macchina da presa innamorata della protagonista, ha scritto un copione decisamente breve; la gran parte dei sentimenti e delle sensazioni ci vengono trasmessi attraverso i lunghi silenzi e i profondissimi sguardi degli attori, l’ottimo Shyam Fernando e soprattutto la stupenda Anjali Patil, che per questa sua interpretazione ha vinto il Premio per la Miglior Attrice all’International Film Festival of India 2012.
L’autore russo avrebbe di certo approvato che sulla narrazione del difficile rapporto fra la bella sottomessa e l’usuraio sia stata innestata questa storia straziante di sentimenti taciuti, di diversità incolmabili, di rimorsi indicibili, di impossibilità di perdono. Quella terribile guerra fratricida, che si sperava essere solo un ricordo ormai sopito, è come un’infezione sotto una ferita non ancora cicatrizzata. Riaffiora d’improvviso, come una pistola creduta scarica a cui era rimasto un colpo in canna può ancora uccidere.
Non sono una ragazzina impressionabile né un’incorreggibile romantica; erano anni che non piangevo al cinema, ma questa volta l’ho fatto, e in sala non ero l’unica, per questo film doloroso e bellissimo.