Una gravidanza difficile e una scelta che appare impossibile: porre fine alla vita del bambino oppure lasciarlo vivere un'esistenza che non sarà mai normale? Anne Zohra Berrached tenta di raccontare il dramma dei genitori, ma inciampa in più punti.
Serena Catalano Figura mitologica metà umana e metà pellicola, ha sfidato e battuto record mondiali di film visti, anche se il successo non l'ha minimamente rallentata. Divora cortometraggi, mediometraggi, lungometraggi, film sperimentali, documentari, cartoni animati: è arrivata addirittura fino alla fine della proiezione di E La Chiamano Estate. Sogni nel cassetto? Una chiacchierata con Marion Cotillard ed un posto nei Tenenbaum.
Microfono, scintillante vestito, un filo di trucco e tacchi alti: tutto è pronto perché Astrid ( Julia Jentsch) salga sul palco ancora una volta. La sua è una routine consolidata, quella dell'artista da Cabaret pronta a far ridere il suo pubblico con battute al vetriolo che non risparmiano nulla, nemmeno la sua vita privata. È per questo che la prima cosa che prende in giro è il suo stato avanzato di gravidanza. Astrid lavora e viaggia in giro per la Germania, accompagnata e accudita dal fedele ed amorevole compagno Marcus ( Bjarne Maedel), con cui ha già una bambina. Una piccola famiglia felice che scherza, gioca, ride e fa l'amore senza preoccuparsi del futuro che arriverà nella forma di una nuova vita che nasce. Tutto crolla nel momento in cui, dopo un esame di routine, la coppia viene a scoprire che il feto è affetto da trisomia 21, comunemente chiamata sindrome di Down. La Germania permette alle donne la cui gravidanza non è completamente sana di abortire anche dopo la 12esima settimana, e il 90% delle donne che scoprono anomalie nel feto prende questa decisione. Una percentuale sconvolgente, che tuttavia Astrid e Marcus sembrano inizialmente voler rifiutare, pronti a riassestare la loro vita e le loro carriere pur di crescere il bambino - a cui hanno già dato un nome, un'identità, un'esistenza. Ma sarà solo alla 24esima settimana di gravidanza (a cui fanno riferimento le 24 Weeks del titolo) che prenderanno una decisione definitiva riguardo la vita del feto.
Tante domande, nessuna risposta
Anne Zohra Berrached ha creato, per sua stessa definizione, un lavoro che vuole esternarsi da ogni tipo di giudizio e presentarsi a metà tra la forma documentaristica e la finzione: non è un caso che gran parte della sceneggiatura provenga da parole che lei stessa ha registrato durante lunghe interviste a coppie che hanno abortito dopo il sesto mese di gravidanza. Un tema etico che divide per natura, e che per molti sfocia nell'omicidio - il feto infatti dopo il sesto mese è in grado di sopravvivere fuori dal ventre materno, e viene quindi ucciso con un'iniezione fatale prima di procedere con l'induzione al parto e quindi l'aborto vero e proprio. È davvero possibile per una madre essere così egoista nel non volersi prendere cura di un bambino con disabilità, oppure risparmiargli un'esistenza travagliata e mai felice è il più estremo gesto di altruismo? Un dilemma agghiacciante, che solleva un naturale dibattito di natura morale nello spettatore e nei protagonisti del film, che tuttavia lo portano avanti durante i 102 minuti di pellicola in maniera altalenante ed insicura. La scelta è, di fatto, tra la vita e la morte, mai come in questo caso e a questo stadio avanzato della gravidanza. Ma fino a che punto rimane della madre e non di una società che diventa sempre più egoista e non ha più spazio per l'imperfezione? Di fronte a tutte queste domande la regista sembra non voler dare una risposta, ma concentrarsi più sul problema della scelta in sé, indipendentemente da quale sarà la risposta finale che i due genitori si daranno. In entrambi i casi infatti affronteranno conseguenze che, probabilmente, lasceranno cicatrici pronte a durare per una vita intera.
Il numero di aborti oltre la 12esima settimana cresce annualmente in Germania: tra il 2007 e il 2014 c'è stato un aumento del 255%, dovuto in parte anche al progresso scientifico (che permette di conoscere in maniera accurata le condizioni del feto prima del parto). La scienza tuttavia non può controllare il legame tra madre e figlio, di cui si prende cura solo in parte e che Anne Zohra Berrached cerca di mostrare all'interno della pellicola con delle immagini che documentano la vita del feto nel ventre materno, oltre che con una maniacale attenzione alla condizione di Astrid, seguita ossessivamente dalla macchina da presa perfino durante il momento più tragico, ovvero la conseguenza della sua scelta. L'attenzione ai dettagli è al limite della pornografia per la regista tedesca, perché non si risolve né in una presa di posizione né tantomeno nella reale intenzione di voler sollevare un discorso importante agli occhi dello spettatore. Tutto rimane fastidiosamente in superficie, tanto da dare l'impressione di essere superfluo - un peccato capitale di fronte ad un argomento così attuale ma soprattutto così delicato. Sempre in bilico tra la voglia di documentare e il bisogno di creare un film e quindi della finzione, Anne Zohra Berrached continua a muoversi sul filo del rasoio cadendo più volte da una parte o dall'altra, finendo per eccedere nel suo modo di raccontare e fallendo nell'intento di voler dare una voce al suo film, che rimane alla fine monocromatico come la sua ultima sequenza.
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