Partiamo da un dato di fatto, chiamiamola pure una condizione di esistenza: io non sono una vittima. E lo scrivo per ricordarlo a me stessa in una giornata in cui tutti i mezzi di comunicazione terrestri e intergalattici faranno del loro meglio per convincermi del contrario. Io non sono una vittima. Chiariamoci: sono la prima a rendermi conto di quanto la retorica patriarcale ammorbi le nostre esistenze di giovani donne in via di emancipazione, suggerendoci – per il nostro bene, eh – di abbassare la voce, di coprirci le gambe, di parlare a modo e di ritrovare la nostra femminilità perduta chissà dove e chissà quando. Io le vedo tutte queste cose, e mi incazzo. Per questo voglio ribadire, oggi che sembra essere la festa nazionale della donna vittima, che io non ho alcuna intenzione di starmene buona mentre va in scena l’ennesima pagliacciata buonista che ci confina al ruolo di (s)oggetti deboli e indifesi, preda di uomini sporchi e cattivi. È troppo facile difendere le vittime, specialmente quando sono morte. Le donne vive, quelle dobbiamo difendere. Dobbiamo difendere quelle che perbenist* di ogni sesso chiamano puttane perché hanno fatto scelte di vita che non rientrano nei loro canoni di femminilità corretta, quelle che non si vergognano a parlare di sesso, che di maternità non vogliono saperne e vogliono fare dei loro corpi quello che cazzo gli pare. Lo so che pare brutto, ma sono donne anche loro. Quindi oggi, femminist* di tutto il mondo o aspiranti tali, fatemi un grosso favore: rifiutatevi di collaborare alla costruzione del vostro monumento funebre. Non state lì a scandalizzarvi per le tette di Veronica Maya in prima serata (a voi non è mai scappata una tetta, che ne so, uscendo dall’acqua dopo un tuffo in piscina? A me sì, e non porto alcun segno di lettere scarlatte sul mio corpo) e battetevi piuttosto per una campagna di educazione di genere capillare, in tutte le scuole di ogni ordine e grado. No, non dobbiamo insegnare ai bambini che le femmine si rispettano perché “non lo vedi quanto so’ carucce?”, neanche fossimo un branco di cerebrolese bisognose di tutori (maschi, naturalmente). Insegnamogli piuttosto a rispettare gli esseri umani, senza preoccuparsi se questi siano portatori sani di peni o di vagine. Insegnamogli il coraggio dell’autodeterminazione e il rispetto per le scelte altrui, anche quando queste proprio no, non rientrano nel nostro modo di vedere le cose. Insegnamogli la collaborazione. Insegnamogli ad accettare il loro corpo senza sottoporlo ad assurde mortificazioni, insegnamogli la bellezza del piacere. E poi, vi prego, per celebrare degnamente ‘sto 25 novembre, fatemi un piacere: niente puntate speciali di “Amore criminale”, niente repliche di “Ferite a morte”, niente Barbare d’Urso coi lucciconi, niente link di donne pestate con sotto il monito “un vero uomo non tocca la sua donna neanche con un fiore”, niente didascalie sessiste del calibro di “la mamma di Asti” “la prostituta di Vigevano” “moglie devota e madre affettuosa” e via di questo passo. Niente di tutto questo, per favore, niente vittimismo. Perché le vittime se ne stanno buone a lasciarsi proteggere, a lasciarsi definire da un linguaggio di cui non sono padrone, e a noi donne questa storia non può e non deve andare bene. Non siamo sante, né principesse, né angeli, né creature da imbalsamare su piedistalli d’argento: siamo esseri umani, e in quanto tali pretendiamo rispetto, anche quando ce ne andiamo con le tette all’aria a protestare per i nostri diritti.
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Partiamo da un dato di fatto, chiamiamola pure una condizione di esistenza: io non sono una vittima. E lo scrivo per ricordarlo a me stessa in una giornata in cui tutti i mezzi di comunicazione terrestri e intergalattici faranno del loro meglio per convincermi del contrario. Io non sono una vittima. Chiariamoci: sono la prima a rendermi conto di quanto la retorica patriarcale ammorbi le nostre esistenze di giovani donne in via di emancipazione, suggerendoci – per il nostro bene, eh – di abbassare la voce, di coprirci le gambe, di parlare a modo e di ritrovare la nostra femminilità perduta chissà dove e chissà quando. Io le vedo tutte queste cose, e mi incazzo. Per questo voglio ribadire, oggi che sembra essere la festa nazionale della donna vittima, che io non ho alcuna intenzione di starmene buona mentre va in scena l’ennesima pagliacciata buonista che ci confina al ruolo di (s)oggetti deboli e indifesi, preda di uomini sporchi e cattivi. È troppo facile difendere le vittime, specialmente quando sono morte. Le donne vive, quelle dobbiamo difendere. Dobbiamo difendere quelle che perbenist* di ogni sesso chiamano puttane perché hanno fatto scelte di vita che non rientrano nei loro canoni di femminilità corretta, quelle che non si vergognano a parlare di sesso, che di maternità non vogliono saperne e vogliono fare dei loro corpi quello che cazzo gli pare. Lo so che pare brutto, ma sono donne anche loro. Quindi oggi, femminist* di tutto il mondo o aspiranti tali, fatemi un grosso favore: rifiutatevi di collaborare alla costruzione del vostro monumento funebre. Non state lì a scandalizzarvi per le tette di Veronica Maya in prima serata (a voi non è mai scappata una tetta, che ne so, uscendo dall’acqua dopo un tuffo in piscina? A me sì, e non porto alcun segno di lettere scarlatte sul mio corpo) e battetevi piuttosto per una campagna di educazione di genere capillare, in tutte le scuole di ogni ordine e grado. No, non dobbiamo insegnare ai bambini che le femmine si rispettano perché “non lo vedi quanto so’ carucce?”, neanche fossimo un branco di cerebrolese bisognose di tutori (maschi, naturalmente). Insegnamogli piuttosto a rispettare gli esseri umani, senza preoccuparsi se questi siano portatori sani di peni o di vagine. Insegnamogli il coraggio dell’autodeterminazione e il rispetto per le scelte altrui, anche quando queste proprio no, non rientrano nel nostro modo di vedere le cose. Insegnamogli la collaborazione. Insegnamogli ad accettare il loro corpo senza sottoporlo ad assurde mortificazioni, insegnamogli la bellezza del piacere. E poi, vi prego, per celebrare degnamente ‘sto 25 novembre, fatemi un piacere: niente puntate speciali di “Amore criminale”, niente repliche di “Ferite a morte”, niente Barbare d’Urso coi lucciconi, niente link di donne pestate con sotto il monito “un vero uomo non tocca la sua donna neanche con un fiore”, niente didascalie sessiste del calibro di “la mamma di Asti” “la prostituta di Vigevano” “moglie devota e madre affettuosa” e via di questo passo. Niente di tutto questo, per favore, niente vittimismo. Perché le vittime se ne stanno buone a lasciarsi proteggere, a lasciarsi definire da un linguaggio di cui non sono padrone, e a noi donne questa storia non può e non deve andare bene. Non siamo sante, né principesse, né angeli, né creature da imbalsamare su piedistalli d’argento: siamo esseri umani, e in quanto tali pretendiamo rispetto, anche quando ce ne andiamo con le tette all’aria a protestare per i nostri diritti.
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