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2666 di Roberto Bolaño. 2. La parte di Amalfitano

Creato il 26 novembre 2012 da Spaceoddity
2666 di Roberto Bolaño. 2. La parte di AmalfitanoLa parte di Amalfitano è la più breve tra le cinque sezioni che formano 2666, il formidabile romanzo infinito di  Roberto Bolaño. Il titolo di queste pagine (un'ottantina, nell'edizione italiana di Adelphi) fa riferimento a un personaggio che avevamo già incontrato ne La parte dei critici: Óscar Amalfitano è un docente universitario catalano, di chiare origini italiane, trasferitosi in una città immersa nel nulla della frontiera tra Messico e U.S.A.: Santa Teresa. I quattro protagonisti delle prime avventure l'avevano incontrato nella loro bizzarra ricerca di Arcimboldi, ma nella mia memoria di lettore vorace, Amalfitano era rimasto un po' appannato, una figura fantasmatica, che si consumava con lo scorrere dei pochi episodi in cui lo si incontra, fino a ridursi a una spoglia, avvilita da un senso di vuoto e di oppressione, oltre che dalle maldicenze che lo volevano omosessuale.
Qui, l'uomo prende il sopravvento sul professore. L'incarico all'università di Santa Teresa è un posto di lavoro qualsiasi, vissuto con poca partecipazione intellettuale, a vantaggio dei retroscena sentimentali. In realtà, dapprincipio si ha il sospetto che l'uomo possa non essere protagonista neanche della parte a cui dà il nome, Amalfitano è stato abbandonato con la figlia Rosa dalla moglie Lola e nelle prime trenta pagine è solo il narratario delle vicende che riguardano la donna. La storia vissuta sembra dunque non essere la sua: Óscar (che pure nel romanzo viene quasi sempre chiamato per cognome), non viene ritratto come studioso di qualcosa o di qualcuno, non ha chiare indagini scientifiche per la mente, anche come professore è visto attraverso dei negativi fotografici, pallido, discreto, chiuso; nel privato, l'uomo sembra costretto a subire la vita altrui finché sua moglie non sparisce, risucchiata dalla sua ricerca di identità e dalla malattia che la divora. È solo allora che avviene il trasferimento oltreoceano con la figlia.
Un giorno, mentre mette insieme i cocci di ciò che rimane della vecchia vita europea, Amalfitano scopre nei suoi scatoloni di libri il Testamento geometrico di Rafael Dieste, che non ricordava di aver mai acquistato, preso in prestito o anche solo rubato, né tanto meno disposto di portare con sé. Inizia così un legame stranissimo tra l'uomo e questo volume, che lui non legge e non studia, ma sfoglia soltanto e poi stende a un filo per la biancheria, perché col vento impari quattro cose della vita. Da quel libro immaginifico, piuttosto una cabala, Amalfitano ricava spunti che lo costringono a guardare alla realtà in modo, se si vuole, ancora meno lucido, come attraverso un vetro, la cui opacità lo stordisce e provoca quell'afflizione che lo svuota e tanto perplessi lascia i tre segugi della prima parte. Del gruppo degli arcimboldiani, Amalfitano sembra piuttosto essere il parallelo di Morini (forse non a caso, anch'egli campano), l'unico che non parte alla ricerca dello scrittore fatidico; ma il nostro eroe è più sfrangiato, ghermito più dal dolore improvviso che dal lento, intrinseco dissolversi negli angoli bui della narrazione.
2666 di Roberto Bolaño. 2. La parte di Amalfitano
Amalfitano è un  personaggio tragico senza catastrofe, un individuo solo e sfuggente, che continua a precipitare. In una parte misteriosa, densa di storia del Cile, di riflessioni sulla letteratura ma soprattutto di filosofia senza razionalità, il lettore si perde e rimane ancora una volta attanagliato da questa scrittura tersa, essenziale e rapida, interrotta spessissimo, solo in apparenza decisa ad evitare di trasformarsi in un manto avvolgente e oppressivo. Non ho ancora capito il senso del titolo del romanzo, e qualcosa mi dice che forse non lo capirò a lungo. Del resto, ci sono tanti aspetti di questa realtà che vanno facendosi più complessi e mutevoli, per non dire ostinati nel negarsi a un'intelligenza lineare (sia pure composita). Le digressioni, qui, si addensano a grappoli e assumono i colori e gli odori delle infiorescenze, ma rimangono in mano al protagonista. Nonostante queste pagine di 2666 brulichino di personaggi - tra i quali spiccano la razionale e perplessa Rosa e l'aitante e un po' spiccio Marco Antonio Guerra - Amalfitano detiene il controllo magnetico della parte che lo riguarda: tutto, anche se non parla di lui, gira attorno alla sua esperienza esistenziale, tutto è in funzione del suo percorso. Il romanzo, nel suo procedere, sembra che gli passi di sopra, sembra che lo investa in pieno, ne fa una vittima, ma proprio qui mi sembra di riconoscere il modo di esistere di quest'uomo: esserci fino al fondo di sé stesso.
Queste idee o queste sensazioni o questi vaneggiamenti, d'altra parte, avevano per lui un lato gratificante. Si trasformava il dolore di molti nel ricordo di uno solo. Si trasformava il dolore, che è lungo e naturale e vince sempre, nel ricordo personale, che è umano e breve e sfugge sempre. Si trasformava un racconto barbaro di ingiustizie e di abusi, un ululato incoerente senza principio né fine, in una storia ben articolata dove c'era sempre la possibilità di suicidarsi. La fuga si trasformava in libertà, anche se la libertà serviva soltanto a continuare a fuggire. Il caos si trasformava in ordine, sia pure a spese di quello che è comunemente noto come senno.

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