Sul piano formale, 2666 è un romanzo strutturato a scenari, non ad angoli visuali: sullo stesso set, la terra di nessuno di Santa Teresa, dimenticata da Dio e rimossa dagli uomini che la abitano, storie di delitti seriali e di sparizioni vengono affrontate da diversi gruppi di persone, con aspettative e interessi differenti. Si ha così un bizzarro cosmopolitismo di provincia, che vede il mondo sintetizzato e costretto in uno spazio improponibile, angusto e come sorpreso a misurare la distanza tra un orizzonte e l'altro. Se Jean-Claude, Manuel, Pietro e Liz, ne La parte dei critici, seguono le vaghe tracce dello scrittore Benno von Arcimboldi e se il protagonista de La parte di Amalfitano prova a dimenticare la moglie che lo abbandona, in questo terzo episodio il giornalista di colore Fate non sa bene neanche lui cosa stia cercando, ma senz'altro non l'incontro con un fantomatico uomo dall'appeal sciamanico, Barry Seaman, né (tanto meno) la supplenza di una cronaca sportiva che non gli compete e di cui non sa nulla. Del resto, anche il collega che è stato ucciso e che lui dovrà sostituire per questo solo match di boxe sembrava avesse messo le mani in pasta in qualcosa di ben diverso rispetto agli incontri di un pugilato messicano, descritto con i toni di misera vanagloria. Il giovane Fate non ci può fare nulla: lui, in quella storia delle donne assassinate, trova materia per un reportage molto più congeniale per lui e interessante per i lettori della sua rivista. Peccato solo che dalla direzione arrivi un secco diniego e che l'uomo abbia, in effetti, modo di saggiare quanto sia pericoloso il confine tra Messico e U.S.A. (almeno in termini di salute mentale).
La parte di Fate è la più misteriosa e sfuggente finora. Si fa fatica ad afferrare l'oggetto e i temi del discorso: come il protagonista - la cui giornata è talvolta compromessa da un senso di nausea e dal vomito frequente - veniamo catapultati da una storia all'altra, senza poterci orientare in nessuna e senza poterci fidare di una qualche parola. È un po' come se con Fate facessimo capolino in tante storie, grondanti di minacce e di sesso, oltre che di insperata poesia, e poi ne venissimo buttato fuori (esemplare, sotto questo aspetto, l'estraneità del protagonista al mondo della boxe). Fa da fil rouge, tra cenni di altro tipo, la presenza massiccia del cinema, tema che - mi pare di capire - varrebbe la pena di approfondire in maniera più sistematica nell'opera di Roberto Bolaño, visto che già si era presentato in modo significativo negli episodi precedenti. Cinema nelle sale e cinema come home video, cinema come arte dell'immagine e dell'immaginario, ma anche come catalizzatore di una società che ha perso il senso del sacro e dell'introspezione, ovvero della solitudine (meraviglioso e suggestivo il monologo che gli si dedica). La scrittura è rapida e incisiva, a tratti difficilmente riconoscibile per chi non sia un affezionato lettore dell'autore, anche se non direi che è lo stile a cambiare (specie se si considera che sto leggendo 2666 in traduzione), bensì proprio il dettaglio delle inquadrature, il ritmo impresso alla storia, il tipo di energia e di stato d'animo, di intimità - come in un rapporto corpo a corpo, nient'affatto pacifico - tra il protagonista e la vicenda. Questo fa sì che perfino la terza persona talvolta sfumi, suggerendo un'omodiegesi impossibile, perché la penna e la regia rimangono quelle di Roberto Bolaño, capace di strappare via la centralità a tutti i suoi personaggi e di passare il testimone ad altri che cercheranno il loro posto nello scorrere torrentizio di 2666.