27. Parlare

Creato il 10 aprile 2012 da Fabry2010

Pubblicato da fabrizio centofanti su aprile 10, 2012

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Le hai raccontato tutto, almeno credi, alla stazione di Parigi, tra la selva dei pali che reggono il soffitto, le vetrate ad arco che gettano luce sui binari, la gente che passa con la fretta dei rappresentanti, il fiato grosso dei vecchi, i bambini che fuggono ridendo dalle madri in ansia. Le hai detto dei viaggi in treno per raggranellare qualche offerta, dei quattrocentomila chilometri in macchina in un’Italia tutta da scoprire, del viaggio nella città assolata in cui cercavate un uomo di cui si sapeva solo il nome. Sicuramente non gliene importa nulla, serve a te per ricordare la tua storia, ora che le hai dato uno strappo, che gli hai detto vado via, mentre lui sussurrava ci pensi? un mondo tutto grigio, ma tu vuoi fare esperienza, ti sei preso la parte del patrimonio che ti spetta e l’hai lasciato a scrutare l’orizzonte, come quando arrivavi di notte e gettavi sassolini alla finestra, perché l’angoscia era tornata, a tradimento, e lui ti diceva parole che riportavano la calma, o bastava sentire l’odore delle Marlboro, vedere il fumo che saliva in anelli tutti uguali e all’improvviso ti sentivi al sicuro, non avevi più paura e adesso ti chiedi cosa avesse di speciale, quale fosse il segreto, e perché quando stavi con lui dimenticavi tutto, o tutto acquistava il senso giusto, persino la severità austera di tuo padre, il moralismo di tua madre, la solitudine dei giochi da bambino, le partite coi soldatini sotto il tavolo, le uova colorate della maestra Spina, la penna a inchiostro del compagno di banco che avresti voluto avere tu: possibile che il sogno di un bambino sia una Pelikan verde che macchia mani e fogli e tutto quello che capita a tiro? Perché le racconti tutto questo? Serve a te rievocare le ferite delle liti in famiglia, la rivalità con tuo fratello che voleva essere il più bravo, la ragazza con gli occhi azzurri della colonia a Peveragno, come si chiamava? Fiammetta, che ti fissava in silenzio, alla stazione: il treno si metteva in moto, ma la linea che univa il vostro sguardo era immobile come una statua di pietra nel mezzo di una piazza, le colonne in cemento alla stazione di Parigi dove la vita si racconta senza alcun motivo, e non sai se hai fatto bene a lasciarlo alla finestra, a scrutare la strada deserta sulla quale ti ha visto scomparire, come Fiammetta, le sue lacrime che scendevano lente mentre il treno ripartiva. Ti sorprendevi ancora del destino di far innamorare senza corrispondere, perché c’era un intoppo sempre nuovo, un viaggio da affrontare, per esempio, in cerca di qualcuno perduto nella città assolata, forse sepolto nel carcere di estrema sicurezza, abbandonato dalla moglie, perseguitato da una banda di strozzini e voi che giravate in lungo in largo, trovandolo soltanto al ritorno, sotto casa, come si fosse accorto, o avesse saputo che eravate partiti all’avventura per lui solo, senza sapere a chi chiedere o come rintracciarlo, perché la sorte ha bisogno di una spinta e ed era giusto prendere il pullman per scoprire che esiste una donna di nome Marika, a cui hai potuto raccontare la vita e che ora ti fissa come Fiammetta alla stazione, con una lacrima che scende lentamente, mentre guarda la strada deserta e qualcuno gli chiede, un po’ distrattamente, don, hai fatto l’insulina?


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