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Creato il 28 gennaio 2012 da Pasquale Allegro
Lo studioso lametino Mario Panarello attribuisce con riserva un'opera al grande maestro barocco. di Pasquale Allegro
Mario Panarello è un redivivo Stendhal.
Certo non perché rappresenti l’ultimo esponentedi un romanticismo francese da riportare inauge tra le rovine del romanzo, o perché, poco poco, sia da ritenere un impolveratoscrittore di reportage da Gran Tour, piuttosto,per esulare dalle categorie letterarie e riportare il discorso sul reale campod’interesse, direi che nel suo sguardo è incipiente quell’affezione estatica,quello stato confusionale che di quella famosa sindrome ti restituisce l’amore vero e puro per l’arte.
E del professor Mario Panarello si potrebbedire, infatti, che travalica facilmente lo stato di invaghito per la bellezza per passare in quello più accademico, percosì dire, di invasato per un’ideaestetica, di quelle che ti comunicano le viscere di una passione e di unosgomento, sempre fanciullo, di far fronte alla meraviglia di un artefattomaestoso: il Santuario di S. Domenico di Soriano Calabro che, nelsuo splendore atavico, già redarguiva disolennità i pellegrini - stanchi viaggiatori dello spirito che anelavano allagrazia del cielo - e gli artisti di ogni dove e di ogni tempo – fruitoridell’immanente e terrena bellezzadifigure di pietra e di marmo -.
Si tratta di un santuario fondato nel 1510, che ebbe poi notevole riscontro qualche decennio dopo,quando apparse prodigiosamente (immagine acheropita, ovvero non fatta da maniumane) un quadro raffigurante San Domenico che la stessa Vergine Maria avrebbedonato ai monaci sorianesi e le cui grazie avrebbero operato miracoli straordinari.
Attualmente questo luogo sitrova nell’occhio del ciclone di un dibattitoculturale e artistico nazionale proprio grazie a Mario Panarello, storicodell’arte e docente di Restauro e Diagnostica dei Beni Culturali all’Universitàdi Cosenza, nato a Lamezia Terme, ma residente nella placida cittadina diBriatico (“la mia casa è un museo che guarda al mare”, mi confessa soddisfatto).
Ripeschiamo gli eventi. Nel 2006, il Comunedi Soriano Calabro gli affida l’incarico di allestire, presso il convento diSan Domenico, il “Museo dei Marmi”, una raccolta interessante delle operememori di fulgido splendore di un maestoso complesso architettonico che,insieme alla silente e aulica preghiera della sua chiesa, andò distrutto nelsisma del 1783, riducendosi a quello che oggi si può definire un cumulo di rovine.Eppure, questi frammenti architettonici, questi indizi di capitelli eammennicoli decorativi, questi gesti marmorei concessi a figure di angeli e disanti, questi momenti mai assopiti della creatività di un laboratorio barocco,non serbano gelosamente il ricordo del passato, ma, custodi incauti dellamemoria, pare strillino il loro intimo e personale segreto di conquistataeternità.
Basta tendere l'orecchio a quel sussurro che ti esplode dentro e ti restituisce, digrazia, il bello: “Se parli di ritratto vivo dici Bernini...”, mispiega il professore, “desiderava con tutto il cuore che i suoi soggetti simuovessero... non voleva che fossero statici. Ma guarda, dai, non noti gliocchi guizzanti che sembrano quasi colloquiare?”.
E qui siamo giunti al nocciolo dellaquestione, alla fonte da cui è scaturita tutta una querelle sul destino diun'opera, una discussione dai toni pacati, certo, ma che ha presto solleticato ledotte dissertazioni di esimi studiosi in letargo. Gian LorenzoBernini, galeotto fu il suo nome in tutta questa storia. Destino volle, infatti, che fra i vari frammentidella navata della chiesa e dell’altare maggiore, fra pezzi di capitelli epezzi di cornici, fra busti di santi e piume di putti, spuntasse una testa inmarmo raffigurante Santa Caterina da Siena. A primo impatto, come riportatoanche in uno dei suoi primi volumi pubblicati, il professor Panarello descrivequesta scultura semplicemente come un pezzo importante della seconda metà delseicento: “In seguito, dopo che è stata ripulita dal restauratore, dopo igraduali processi sbiancanti del marmo, è venuta fuori la sua straordinariabellezza, e lì ho capito che era un’opera particolarmenteimportante”, e sul particolarmente l’espertostrabuzza gli occhi, quasi nonriuscisse a spiegare veramente quanto possa esserlo...Fattosta, comunque, che tra le pagine del volume che ha poi pubblicato nel 2010, Il grande cantiere del Santuario di S.Domenico di Soriano, edito da Rubbettino, Mario Panarello si spinge moltoin là, non solo inserendo la Santa Caterina tra le produzioni di scuolaberniniana, ma addirittura attribuendo “con prudenza, molto prudenza” lapreziosa scultura direttamente alle paternità delle preziose mani delprestigioso maestro. E anche qui, soprattutto quando sottolinea il termine prudenza, fa delle piccole smorfie conla bocca e dà dei piccoli movimenti del collo rispondendo “sì” e “no”, “si” e“no”...Capisci che il professore è disposto ascendere a patti con la realtà solo quando finalmente si rassetta i capelli et’invita a entrare e a conoscere, così, le rovine del suo paradiso terrestre.Prima di raggiungere l’ingresso delMuseo dei Marmi, m’incammino affiancando la parte rimasta del “chiostro di mattoni” delconvento (più avanti si trova invece “il chiostro di pietra”)e poco ci manca che, piccolopiccolo di fronte a cotanta meraviglia, possa sentire il mio passaggio come unmomento di fuliggine strappato dal vento della Storia. “È un santuario barocco a tutti glieffetti,” m’istruisce Panarello, “nasce con il Barocco e muore con il Barocco.Ha proprio questa parabola: nasce nei primi del ‘600 e muore alla fine del ‘700,quando il barocco è bello che sepolto”.Appena si entra nel museo, lo sguardodel visitatore è catturato dalla figura imponente di S. Domenico che traluce da un busto in marmo attribuito aGiuliano Finelli, allievo e collaboratore di Gian Lorenzo Bernini. Alla suadestra, come prestasse fianco al padrone di casa con la sua mistica presenza,si trova lei, sì, colei che preferì adombrarsi della sofferta luce di unacorona di spine anzichéindossare unacaduca ghirlanda di pietre preziose: Santa Caterina da Siena, con il suosguardo rivolto altrove, sempre più oltre e oltre ancora.Osservando dal vivo questa scultura siha come la sensazione di scorgere veramente una vita che freme, un’esistenza dicui pare sentire il sussulto del sangue che ancora sgorga; non ci si trova piùdavanti ad una foto che mira solamente a dichiarare la solennità dell’opera, larappresentazione inerte di un grumo di cellule rapprese. “Sì, è un volto splendido... e cambialuce, cambia se la guardi da un’altra prospettiva... le pupille, le ciocche,sono vive, sì, proprio così, vivono...”. Tutte caratteristiche che pare ti supplichinouno sguardo e una carezza, tanto sembrano animarsi sotto l’impulso dei sensi.“È un pezzo di una bellezza... e più laguardo e più dico che sì, sì...” “Sì?”“Ma dai... sì, va bene, bisogna esserecauti nell’affermarlo, siamo pur sempre scienziati, fatto sta però che io cipenserei anche tanto, e veramente tanto, prima di affermare che questameraviglia non è di Bernini!” L’esperto professore potrebbeabbandonarsi in incaute confessioni. Lo incalzo. Voglio tornare sullecaratteristiche che lo fanno esclamare – “con prudenza eh, sempre con moltaprudenza!” - che la testa marmorea della santa può essere attribuita a Bernini.“Sono supposizioni che” premette Panarello “studiando un pezzo maciullato inquesto modo, non puoi restituire come certezze. Qua c’era uno sviluppo dicapelli, cosa c’era qua ancora? Non si sa.”. Infatti, anche a causa di anni e anni diincuria e di abbandononei cortili del convento,il volto della figura risulta scheggiato, e poi mancano, ad esempio, parti delmento e del naso: “Purtroppo la superficie calcinata non è più lucida, non hapiù la sua patinatura.” E poi manca ancora tutta la parte inferiore che va dalcollo in giù, il che fa supporre che in realtà la testa sia la parte rimanentedi un busto: “Sappiamo poco dei soggetti sacri, dei busti di Bernini,” e qui ilprofessore comincia ad illustrare la sua tesi, “l’artista, infatti, in vita faun resoconto delle sue opere, elenca, ad esempio, le strutture sacre plasmate epoi alla fine di questa lista afferma di aver creato dei busti. Io credo,appunto, che non si riferisse ai ritratti. Mi spiego meglio: io credo che inquella affermazione Bernini abbia incluso nella categoria dei soggetti sacri ibusti come formato scultoreo. Di conseguenza questo fa pensare che fino ad ogginon si conoscono i busti sacri dell’artista napoletano”. Pertanto, laddove siarrivasse ad affermare, con certezza inattaccabile, che il marmo di SantaCaterina è opera di Gian Lorenzo Bernini, la supposizione di Mario Panarello finirebbe per essere una scopertaeclatante.Intanto gli occhi della santa vibrano diespressioni estatiche. È la mistica prova della possibilità dell’arte disublimare momenti e protagonisti.“Guarda quest’espressione intensa dislancio spirituale”, continua a delucidarmi Panarello, “ e osserva bene comecontrasta con il naturalismo delle ciocche, come se avesse voluto sfidare leregole dell’arte giocando con diverse nature.” E poi ancora: “Guarda lapupilla, è scavata; la pupilla arrotondata era una prerogativa della culturaclassica, mentre questo elemento scavato dà espressioni, è, come dire, piùpittorico, diciamo così”. E te lo spiattella lì davanti, con lafierezza di chi ha finalmente fatto esperienza di quella maestria che i tomiscolastici rendono sempre distanti anni luce, davanti all’incombente solennitàdi una biografia che non ha eguali; il virtuosismo ed il naturalismo estremo diGian Lorenzo Bernini sono il traitd’union fra la speranza di un improvvido e appassionato studiosodell’entroterra calabrese ed una languida e spirituale espressione artistica diun volto di marmo scampato all’oblio. Per entrambi, ciò che conta è laconquista dell’eternità.Per raggiungere questo obiettivo MarioPanarello non dispone però dello strumento preferito dal maestro, quel trapanoche “crea un effetto tridimensionale più forte, mentre un classicista...”, masi predispone alla tenacia e alla solitudine dello scriteriato - nella suaindotta pedanteria - osservatore: “Devi avere un occhio clinico per distinguereBernini dagli altri della sua scuola. Il nostro è uno studio soprattuttovisivo, i particolari sono minimi”. E solamente lui riesce a compenetrareSanta Caterina di uno sguardo che ne sa riconoscere l’effetto del chiaroscuro,che si ostina a ribadire la capacità di resa dei particolari anatomici tipica diBernini. E lo fa poi in un confronto forsennato con l’Anima Beata dello stesso autore, rimaneggiando riscontri evidentinell’identica impostazione, nella tecnica, nella resa di quel sentimento dirapita astrazione in cui si cimentano le espressioni di quelle figure.Ma allora, il caro nostro professorePanarello, annuncerà la sua verità tra queste pietre e questi scampoli di vitae di arte, concederà alle presenze di cui è innervato questo santuario diinstaurare un rapporto definitivo con la memoria storica, restituirà anticofulgore a dei ruderi sbilenchi e a delle facce sbiancate, completando così lasua ricerca e fomentando certezze su certezze? È uno studioso onesto, preparatoa lavorare più sui dubbi che sulle certezze, perché “è importante creare anchedibattito, e ben venga la discussione. Anche le ricerche più documentate e cheproducono certezze aprono nuovi canali, quindi quello dello studio dell’arte ètutto un campo dinamico, in evoluzione. Alla fin fine, dunque, anche un’attribuzionesbagliata può essere utile”. Forse io non posso comprendere come vanno certecose, capire cos’è autorevole e cosa non lo sia, e chi possa arrogarsi ildiritto di decidere cosa debba esserlo.E un po’ Mario Panarello forse vive di questa umile attesa; manda avantila sua esistenza proprio come fosse un frammento di marmo a cui bisogna ancoraattribuire un nome, a cui si deve ancora riconoscere il giusto valore. Vivecome le sculture oggetto del suo studio, che, inquiete nella loro immobilità e cianciantid’esperienza nel loro silenzio, si lasciano inghiottire dalla semplice bellezzadella natura. Se museo o mondo, non fa differenza. Se polvere di pietra o luce di tramonto,poco importa.
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