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D’Annunzio: divo o superuomo?

Creato il 06 dicembre 2013 da Rodolfo Monacelli @CorrettaInforma

Il vate D’Annunzio, abile imprenditore del suo successo, affascina tuttora per la sua capacità di oltrepassare se stesso, sia nell’arte che nella vita

DAnnunzio DAnnunzio: divo o superuomo?

A 150 anni dalla nascita di Gabriele d’Annunzio, sono stati organizzati diversi eventi culturali, ma è anche emerso un fatto increscioso. L’ assessore alla cultura della regione Abruzzo (con la sua segretaria ed altri due dipendenti) sono stati sottoposti a misure cautelari, in seguito alla denuncia di un organizzatore, che lo scorso marzo si é rivolto al Corpo Forestale dello Stato poiché, per ottenere un finanziamento, sarebbe stato indotto dall’assessore a richiedere del denaro in eccesso che sarebbe stato poi diversamente utilizzato. L’indagine, coordinata dal procuratore capo di Pescara, prende nome ‘Il Vate‘.

Gabriele D’Annunzio venne denominato ‘il Vate‘ indubbiamente per le sue velleità di poeta-profeta in senso superominico (ovvero di colui che si eleva sull’uomo ‘comune‘ e lo ispira nella giusta direzione) ma anche per la sua capacità ‘anti-solipsista‘ di saper venire incontro ai gusti del pubblico. Se molte grandi personalità vennero apprezzate solo dopo la morte, D’Annunzio raggiunse invece il suo successo a soli sedici anni, e seppe mantenerlo ed alimentarlo, con grande lungimiranza, per tutto l’arco della sua vita.

Gabriele D’Annunzio iniziò la sua ascesa letteraria mentre  frequentava il collegio reale Cicognini di Prato, ovvero quando pubblicò, grazie al sostegno economico del padre, la sua prima collezione poetica, Primo vere. Già alquanto sveglio e disincantato, il poeta in erba accompagnerà la seconda edizione di quest’opera con una tanto plateale quanto riuscita campagna pubblicitaria, cosicché perfino i severi carducciani ne riconosceranno la tanto sconcertante quanto rapida ascesa. Due anni dopo, mentre a Roma era iscritto con scarso impegno alla facoltà di Lettere, il giovane Gabriele si presentò a Edoardo Scarfoglio, l’ editore del giornale ‘Capitan Fracassa‘, dove collaboravano molte personalità in vista. Scarfoglio così descrive il suo incontro con D’Annunzio:

Alla prima vista di quel piccolino con la testa ricciuta, e gli occhi dolcemente femminili, che mi nomino’ e nomino’ sè con un’inflessione di voce anch’essa muliebre, mi scossi e balzai su stranamente colpito… (1)

Sulla ‘Cronaca bizantina‘, dell’editore Sommaruga, usciranno le due successive collezioni poetiche dell’autore, Canto novo e Terra vergine, che diventeranno due volumi nel 1882.

Nel 1883 il poeta suscito’ numerose polemiche con i versi licenziosi dell’Intermezzo di Rime, che seppe accortamente placare pubblicando un libello sull’argomento. Quello stesso anno sposò la duchessina Maria Hardouin di Gallese, con la quale aveva tentato di fuggire a Firenze. Tuttavia, alla stazione i due giovani furono ‘accolti‘ dal prefetto in persona, allertato dal duca padre. Il matrimonio venne celebrato nella cappella di Palazzo Altemps, con la clamorosa assenza del duca e dei genitori dello sposo. La madre della contessina, per fronteggiare le difficoltà economiche del genero, si rivolse al principe Maffeo Sciarra, che lo fece assumere presso il giornale ‘La Tribuna‘, con cui collaboro’ dal 1884 al 1888, e sulle cui pagine comparvero anche i versi di Isaotta Gottadauro (composti sui tavoli del caffé Greco di via Condotti), e le novelle San Pantaleone, che diverrano le più eleborate  Novelle della Pescara.

Nel 1887  lo scrittore ha tre figli da mantenere, oltre all’amante trasteverina Elvira Natalia Fraternali (che si era appena separata dal marito Ercole Leoni, e che D’Annunzio chiamerà sempre Barbara). Un’occupazione ‘stipendiata‘ (di cinquecento lire al mese) rappresentò, quindi, non solo la possibilità di sbarcare il lunario, ma anche di carpire nel dettaglio le tendenze dell’epoca, i gusti, le mode della capitale. Coperto da vari pseudonimi, l’autore si esprime in piena libertà, descrivendo le anche piccanti abitudini di personaggi altisonanti, ed accompagnando il lettore in ambienti altrimenti inaccessibili, come i fastosi palazzi principeschi della Roma umbertina. L’autore scriverà dunque quelle cronache mondane che faranno poi da sfondo al suo primo romanzo,  Il Piacere, che fu pubblicato nel 1889 con la prestigiosa casa editrice milanese Treves. Il conte Andrea Sperelli Fieschi d’Ugenta, il protagonista, é un tipico ‘dandy‘, superficiale ed edonista. Viene definito ‘camaleontico‘ (nel senso smaliziato, lezioso e cortigianesco del termine) nonché dotato di una natura sensuale che si sposa con un raffinato intellettualismo. Il suo ‘catechismo estetico‘, fatto di parole manierate, si riversa su dame che sembrano uscite da affreschi pre-raffaelliti. L’inattuabile perfezione dei corpi, che sembrano perennemente degni di patinate riviste di moda, confonde (un po’ come avverrà nel quasi contemporaneo  Ritratto di Dorian Gray wildiano) i confini fra arte e vita:

La giovinezza in lui, contro tutte le corruzioni, contro tutte le dispersioni, resisteva, persisteva, a somiglianza d’un metallo inalterabile, d’un aroma indistruttibile. (2)

Descrivendo il viso di Elena, Andrea (alias il D’Annunzio creatore artistico) chiama in causa perfino la genialità di Leonardo:

Due quattrocenteschi meditativi, perseguitori infaticabili d’un Ideale raro e superno, psicologi acutissimi a cui si debbon forse le più sottili analisi della fisionomia umana, immersi di continuo nello studio e nella ricerca delle difficoltà più ardue e de’ segreti più occulti, il Botticelli e il Vinci, compresero e resero per vario modo nell’arte loro tutta l’indefinibile seduzione di tali bocche. (3)

L’ unica forma di ‘spiritualità‘ che Andrea sperimenta è quindi l’ascendente che il fascino di Elena esercita su di lui. Quando, ad esempio, quest’ultima compare al suo cospetto avvolta in una coperta, ella diventa, agli occhi del protagonista, ‘una divinità avvolta in una zona del firmamento‘.(4) Quando Andrea, per dimenticarla, si ‘ripiegherà‘ sulla devota (ma comunque sempre coniugata) Maria Ferres, non potrà fare a meno di confondere il suo nome con quello di Elena. Quest’ultima avrà quindi il potere di far emergere, seppur involontariamente, uno sprazzo di sincerità in Andrea, suscitando una reazione direttamente proporzionale alla menzogna da lui costruita :

Ad un tratto, ella gli si svincolò dalle braccia, con una terribile espressione d’orrore in tutte quante le membra, più bianca de’ guanciali, sfigurata più che s’ella fosse allora balzata di tra le braccia della Morte. (5)

Se D’Annunzio, da una parte, amava l’idea che Andrea rappresentasse una sorta di suo alter-ego, che allude più o meno esplicitamente ai suoi fatti pubblici e privati, da un’altra cercava di distaccarsi dal suo personaggio. Quando Andrea, ad esempio, viene in contatto coi tumulti che seguirono la battaglia di Dogali (la città eritrea in cui il conflitto si svolse nel 1887), pronuncia una frase (‘per quattrocento morti, morti brutalmente‘)  che suscitò fra i patrioti molte indignate reazioni. D’Annunzio, in questo frangente, spiegò che quell’affermazione serviva a caratterizzare il personaggio di Andrea Sperelli come ‘una specie di mostro‘(6), e quindi potenziò l’insensibilità di un’indole che si limitava altrimenti a una ‘puerile debolezza‘, o al solo confondere la vita con un’opera d’arte. Lo scrittore, che non disdegnò mai l’idea commerciale del romanzo d’appendice, voleva, un po’ come avveniva nel contemporaneo magazine inglese ‘Tit-bits‘, offrire al popolo una lettura d’evasione, che potesse profilarsi come un’ancora di salvezza nel ‘grigio diluvio democratico‘ della monotonia quotidiana. Allo stesso tempo, D’Annunzio vuol far sì che il lettore possa, in un certo qual modo, sentirsi parte del romanzo. Il punto d’ incontro fra il popolo e l’ aristocrazia diventano le strade di Roma, dove la fatica del manovale, a sua volta parte di un suggestivo quadro, si alterna allo sfarzoso passaggio di nobili signore in carrozza. La descrizione della capitale imbiancata fa affiorare il lato più intimistico e poetico del romanzo, facendo da contrappunto a quel che il critico Giuseppe Petronio definì ‘mondo fatuo e galante dalle apparenze preziose‘(7) :

La neve copriva le verghe dei cancelli, nascondeva il ferro, componeva un’opera di ricamo più leggera e più gracile di una filigrana, che i colossi ammantati di bianco sostenevano come le querci sostengono le tele dei ragni. (8)

Suddetto celebre romanzo, tuttavia, non fu scritto nella capitale, ma in Abruzzo, a Francavilla, dove D’Annunzio venne ospitato da un amico pittore. Qui scriverà anche L’Innocente, romanzo che ha tratti in comune con la letteratura russa di Tolstoj e Dostoevskij. A Francavilla inzierà anche il romanzo L’Invincibile, ripreso poi nel 1893, durante il soggiorno napoletano, col titolo Il trionfo della morte. A Napoli, oberato anche dai debiti contratti dal padre, D’Annunzio collabora col giornale Il mattino, e poi intraprende una relazione con la maritata Maria Gravina Cruillas, con la quale concepirà la figlia Renata. Frequenterà anche i fervidi cenacoli culturali,  approfondendo la conoscenza della musica wagneriana e leggendo la traduzione in francese delle opere di Nietzsche. L’impatto col filosofo tedesco segna una svolta determinante nella carriera artistica di D’Annunzio.

Giorgio Aurispa, protagonista del Trionfo della morte, compie dei viaggi che diventano delle occasioni ‘conoscitive‘. Deluso dalla famiglia d’origine, da un mistico pellegrinaggio, dalla meditazione filosofica, e anche dall’amore, che diventa ‘la più grande fra le tristezze terrene‘(9), alla fine Aurispa, diventando omicida-suicida, sceglie la morte come ultima soluzione. D’Annunzio sa bene che il pubblico non è abbastanza maturo per concepire questo gesto come un’affermazione della volontà di potenza (ovvero come un energico tentativo di oltrepassare ogni umano limite), anche considerando il fatto che i lettori, più che da astratte teorie, erano calamitati dal realismo di Verga e dal naturalismo di Zola (non a caso, D’Annunziosoffia‘ a quest’ultimo scrittore l’annunciata idea di descrivere i corpi deformi dei malati in visita ad un santuario, che per Zola sarebbe stato quello di Lourdes). Pertanto, l’autore preferì suscitare nel pubblico lo scalpore di un fatto di cronaca (lo stesso che apre il romanzo, con la premonitoria scena del cadavere suicida) piuttosto che introdurlo all’idea di un’esaltante inversione di valori, ovvero di una logica che anteponeva la pura istintualità, anche nei suoi risvolti più raccapriccianti, a ogni atto rinunciatario, soprattutto nel senso cristiano e dogmatico del termine. La morte, anche se catartica, in questo romanzo non scaturisce dagli alti ideali della tragedia classica, bensì da un moderno senso di apatia e insoddisfazione esistenziale, che degenera poi in una sorta di atavico desiderio di annientamento. Il male di vivere si origina quindi da un irrazionale timore di non poter impadronirsi dell’altro fino in fondo, di non poter catturare quei pensieri che solo con il delitto vengono ‘egoisticamente‘ posseduti:

Aurispa ad Ippolita:  ‘Tu mi sei ignota. Come qualunque altra creatura umana, tu chiudi dentro di te un mondo per me impenetrabile. <…> Tu non puoi darmi l’anima. Anche nella più alta ebbrezza, noi siamo due, sempre due, estranei, interiormente solitari. <…>. Se io, inconsapevolmente, suscitassi in te una memoria, il fantasma di una sensazione già provata, una malinconia dei più lontani giorni? Io non ti sapro’ mai dire la mia sofferenza.‘ (10)

Tuttavia, anche se Ippolita non é meno delusa e ossessionata di Aurispa, lo scrittore, nella parte finale del romanzo, preferì isolare quest’ultimo, lasciandolo solo nelle sue criminali intenzioni. Ippolita, quando si rende conto che il suo uomo la vuole con sé nella morte, si ribella con tutta se stessa, gli dice che  é pazzo, e quindi, incarnando la ragione cosiddetta ‘comune‘, diviene vittima di un vero e proprio atto di violenza, che viene poi motivato da un crescente disprezzo maturato nel tempo, e dai tratti visibilmente paranoici:

Ella parlava lieta; sorrideva. Ed egli credé scoprire in quel sorriso, onde s’illustravano le ultime parole, la spontanea compiacenza che la donna prova nell’ordire un qualunque inganno. (11)

Fu una lotta breve e feroce come tra nemici implacabili che avessero covato fino a quell’ora nel profondo dell’anima un odio supremo. E precipitarono nella morte avvinti. (12)

Poiché la morte, intesa in questi primordiali termini, non può essere interpretata come vero e proprio ‘trionfo‘, l’autore smentisce il titolo del libro, annoverando Aurispa fra i personaggi appartenenti al cosiddetto ciclo della rosa, ovvero dei ‘fallimentari‘. A questo punto, il poeta vorrebbe avviare un nuovo ciclo narrativo, dedicato al giglio, e destinato però a rimanere incompiuto. Nel 1895  pubblicò l’unico romanzo di suddetto ciclo, Le Vergini delle rocce, che venne accolto tiepidamente. L’ideologia nicciana, in questo libro, traspare con maggiore evidenza ma viene anche semplicisticamente ‘rielaborata‘, poiche l’eletto Cantelmo viene identificato con un uomo di antica stirpe aristocratica che vuole sposarsi con una donna altrettanto nobile, per dare origine ad una discendenza privilegiata in un mondo da ‘migliorare‘:

Il mondo, quale oggi appare, é un dono magnifico largito dai pochi ai molti, dai liberi agli schiavi: da coloro che pensano e sentono a coloro che debbono lavorare. – E riconobbi quindi la più alta delle mie ambizioni nel desiderio di portare un qualche ornamento, di aggiungere un qualche valore nuovo a questo umano mondo che in eterno si accresce di bellezza e di dolore. (13)

Il superomismo nicciano, anche quando parlava di ‘schiavi‘, non aveva invece in sé alcuna implicazione classista (cerca solo energie dominatrici in senso lato), nello stesso modo in cui era convinto che la politica (ivi inclusa l’arte oratoria della quale si avvale) non avrebbe mai trovato una soluzione alle ingiustizie di un mondo che, ripetendo se stesso all’infinito, e quindi destinato a non progredire, andava soltanto incondizionatamente e ‘dionisiacamente‘ accettato. D’altra parte, per D’Annunzio la parola aristocrazia si identificava anche a una sensibilità d’animo che si opponeva alla smania edilizia di un affarismo borghese, che non aveva più rispetto per la natura e per il patrimonio artistico. Questa sua ideologia verrà ampliamente illustrata in un articolo su ‘La Tribuna‘:

Era il tempo in cui più torbida ferveva l’operosità dei distruttori e dei costruttori sul suolo di Roma. Insieme con nuvoli di polvere si propagava una specie di follia edificatoria, come un turbine improvviso <…>  I lauri e i roseti della Villa Sciarra, per cosi’ lungo ordine di notti lodati dagli usignoli, cadevano recisi o rimanevano umiliati fra i cancelli dei piccoli giardini contigui alle villette  degli agenti di cambio e dei droghieri. I giganteschi cipressi ludovisii, quelli dell’Aurora, quelli medesimi i quali un giorno avevano sparsa la solennità del loro antico mistero sul capo di Wolfang Goethe, giacevano atterrati (mi stanno sempre nella memoria come i miei occhi li videro in un pomeriggio di novembre), atterrati e allineati l’uno accanto all’altro, con tutte le negre radici scoperte che parevano tenere ancor prigione entro l’enorme intrico il fantasma di una vita oltrapossente. E d’ intorno, su i prati signorili ove nella primavera anteriore le violette erano apparse per l’ultima volta più numerose dei fili d’erba, biancheggiavano pozze di calce, rosseggiavano cumuli di mattoni, stridevano ruote di carri cariche di pietre, si alternavano le chiamate dei mastri e i gridi rauchi dei carrettieri, cresceva rapidamente l’opera brutale che doveva occupare i luoghi già per tanta età sacri alla Bellezza e al Sogno <…>. (14)

Eleonora Duse  DAnnunzio: divo o superuomo?
Nel 1896, reduce da un viaggio in Grecia,  D’Annunzio inizia un sodalizio con l’attrice Eleonora Duse, che avrà su di lui una grande influenza anche a livello artistico. Quello stesso anno avverrà la polemica dei plagi, avviata dallo scrittore torinese Enrico Thovez, il quale sostenne che D’Annunzio aveva ‘copiato‘ da autori inglesi e francesi. Quest’ultimo reagì alle accuse avviando la composizione del Fuoco, un romanzo passionale, del tutto ‘inatteso‘ poiché destinato ad aprire il nuovo ciclo del ‘melograno‘, e chiaramente autobiografico nella descrizione, anche a tratti dettagliata, della relazione del drammaturgo Stelio Effrena con l’attrice Foscarina. Ambientato nella decadente Venezia, dove la Duse abitava quando non era in tournee, ed estimato anche da Joyce, l’effetto complessivo del romanzo fu soprattutto quello di rendere D’Annunzio oggetto della morbosa curiosità dei lettori. Perfino la finale descrizione della morte di Wagner (che avvenne in questa città nel 1883), servì ad alimentare il divismo dannunziano, poiché l’autore-personaggio si presenta fra coloro che portarono il feretro del compositore, laddove non vi sono evidenze che ciò avvenne veramente. Il critico Francesco Flora evidenziò come l’aldilà dannunziano, sia ‘tutto di questo fisico mondo‘(15), quindi quel mistero dal sapore mistico che la salma sprigiona non può che ricollegarsi alla pagana mitologia germanica, ovvero quel dio Wotan esaltato nel ciclo dei Nibelunghi:

Tutti erano fissi all’eletto della Vita e della Morte. Un infinito sorriso illuminava la faccia dell’eroe prosteso: infinito e distante come l’iride dei ghiacciai, come il bagliore dei mari, come l’alone degli astri. Gli occhi non potevano sostenerlo; ma i cuori, con una meraviglia e con uno spavento che li faceva religiosi, credettero di ricevere la rivelazione di un segreto divino. (16).

Alla Duse venne anche dedicata la celeberrima poesia ‘Pioggia nel pineto‘ (1902) ambientata nella toscana Marina di Pietrasanta, e che fa parte della collezione poetica Alcyone.  La natura, per D’Annunzio, non ha un valore trascendente, ma é espressione di un’energia vitale che liberamente fluisce, in un panismo che unisce strettamente l’elemento umano al paesaggio circostante. In questa lirica la natura viene ascoltata e ‘registrata‘ nei minimi dettagli, vale a dire in particolari che, come affermò Croce, l’autore ‘fissa con sguardo limpido e sereno’ al di fuori di ‘connessioni superiori’, come ‘le perle sciolte di una collana’ (17) :

E  immersi /

noi siam nello spirto / silvestre; /

d’arborea vita viventi; /

e il tuo volto ebro /

é molle di pioggia /

come una foglia,/

e le tue chiome /

auliscono come /

le chiare ginestre, /

o creatura terrestre /

che hai nome /

Ermione. (18)

Il legame con la Duse ebbe comunque un significato ancora più complesso, poiché consacrò lo scrittore anche in campo teatrale. Il teatro divenne il modo per comunicare direttamente col suo pubblico, ‘ipnotizzandolo‘ anche attraverso la recitazione, e non solo attraverso la ricercata destrezza della penna. La Figlia di Iorio, che uscì nel 1903, segnerà il culmine della sua esperienza teatrale. La Duse non vi reciterà poiché ormai malata, ma sarà quest’opera perfetta il più alto prodotto della sua dedizione a D’Annunzio. La tragedia pastorale, che illustra la rivalità fra padre e figlio per Mila, anticiperà il teatro d’avanguardia di Pirandello, che nel 1934 sarà regista di questa stessa tragedia.

Nel 1910 l’autore tornerà al romanzo, pubblicando Forse che si, forse che no, in cui esalterà, sull’onda dei futuristi, il potere della tecnologia. Il tema dell’incesto e della follia si incastra nel genere  avventuroso,  che era di tendenza, anche considerando che Kipling aveva vinto il premio Nobel nel 1907. Il desiderio di mettersi alla prova grazie ad una competizione aviatoria (dove la comparsa di un velivolo – termine da lui stesso coniato – equivale a quella di un semidio pagano) gli sembro’ un’idea masticabile, cosicché l’autore poté esaltare la rapidità e la leggerezza come se fossero dei veri e propri valori, non poi così diversamente da come, in epoca post-moderna, farà Italo Calvino nel suo Lezioni Americane. Sempre nel 1910 D’Annunzio, assediato dai creditori, si trasferì in Francia. Il direttore del Corriere della seraLuigi Albertini, cercò di sanare le sue ingenti passività, in cambio di una sua collaborazione. D’Annunzio pubblica così Le Faville del maglio, prose di memoria che coincidono col tentativo di combattere la cosiddetta ‘morte letteraria‘ descritta nei Taccuini del 1912:

I rifiuti della vita, i frammenti di utensili, le scorie-un pezzo di ferro, un chiodo torto, una scheggia, un truciolo, un pezzo di fune, una scatola di latta vuota. Tutto parla, tutto é segno per chi sa leggere. In ogni cosa è posta una volontà di rivelazione. (19)

Anche date tali circostanze, l’evento storico della prima guerra mondiale diverrà per l’autore l’occasione per una privata rinascita, per creare una nuova ‘leggenda di se stesso‘ e per fare, per dirla con l’Isnenghi, ‘uso politico delle esigenze e dei trasporti soggettivi‘(20). Nel 1915, annunciando al suo editore di aver ricevuto ‘una bellissima lettera‘(21) dal generale Cadorna, lo scrittore tornerà appositamente in Italia per caldeggiare l’entrata nella prima guerra mondiale. Al contrario di tanti interventisti, come ad esempio Papini, che rimasero tali solo a parole, D’Annunzio parteciperà al conflitto mondiale attivamente, anche con iniziative inutili e distruttive osteggiate dal suo stesso colonnello, ma da lui considerate come sfide titaniche. L’orazione di Quarto, del 5 maggio, non poteva essere compresa dai soldati comuni che andavano in guerra solo per un senso di sottomissione verso la patria, ma rappresenta più che mai il desiderio del poeta di farsi conoscere anche dal popolo delle trincee. In questo discorso, che venne definito da Benedetto Croce come una ‘parodia del sermone della montagna‘(22), il sangue sparso in battaglia diviene beatificazione, processo purificatorio, innalzamento dello spirito. In un capitolo del Libro ascetico della Giovine Italia, che venne poi pubblicato nel 1926, lo scrittore immagina un gruppo di caduti, con il viso rivolto a terra, che continuano il canto intrapreso prima della fucilazione. Lo scrittore venne accusato (dal suo ufficiale Rinaldo Parodi), di aver trasformato un evento commemorativo in un’esperienza estetizzante, nella quale i soldati diventano anche esseri indistinti.

Nel 1916, a causa di un incidente verificatosi presso Grado durante un volo dimostrativo, lo scrittore rischia la totale cecità, ed è costretto a rimanere per mesi, nella sua ‘casetta rossa‘ a Venezia, in stato d’immobilità e con gli occhi bendati.  Su più di diecimila listelli di carta scrive  Il Notturno (poi pubblicato nel 1921), reagendo con grande operosità a una condizione che altrimenti lo avrebbe duramente provato. Lo stile, spesso sconnesso, e depurato da ogni artifizio, rappresenta anche stilisticamente la scarna brutalità delle immagini, che si susseguono come subitanee illuminazioni. In quest’opera il sentimento di orrore, il trauma creato dal crudo contatto con la morte prevale su quello puramente spettacolare, agonale. I volti anonimi cominciano ad assumere una fisionomia ben precisa, rivelando l’aspetto più brutale e disumanizzante del conflitto mondiale:

Il fante ritorna a me con un fascio di pellicce macchiate di bruno, chiazzate di sangue risecco. Depone sul banco il fardello truce come il mercante scarica la balla di panno da misurare a braccia. Sono le spoglie di Alfredo Barbieri reduce dall’impresa di Lubiana. (23)

La descrizione del corpo di Miraglia, un suo commilitone, accanto al quale lo scrittore trascorse ore ed ore nell’obitorio di Venezia, inizialmente scaturisce da un senso di distaccata e meccanica osservazione, poi si scioglie in un senso di identificazione fraterna, dove emerge anche un bagliore di speranza ultraterrena:

Ora é là, non più con la nostra aria, con l’aria che io respiro, ma con la sua aria, con l’aria della tomba, con l’aria dell’eternità, che non consuma i suoi polmoni entro le sue costole infrante. (24)

Le angosciose visioni frammentarie si dilatano nello spazio e nel tempo, includendo i ricordi dell’ infanzia. La sofferenza dei soldati viene accomunata a quella degli animali sacrificati nella fattoria paterna, e la madre diventa colei che incarna un naturale senso protettivo. La figura materna é  ‘povera creatura avvilita, percossa, sfigurata‘, che suscita un infinito senso di colpa nel figlio-soldato (‘C’é dunque qualcosa che puo’ farmi più male in quello sguardo senza lume?‘). Tuttavia, la madre é anche letterata, e quindi, in un certo senso, fonte di rigenerante consolazione:

Legge i poeti, ed il fiume dei sogni mi trasporta nell’ombra dei lauri. Cessa di leggere, e subito la pena mi rimorde. Ha una parlatura toscana, di purità senese. Cosi’ parlava Santa Caterina giovinetta quando coltivava il suo giardino. (25)

Al termine dell’opera, lo scrittore recupera un senso di orgogliosa esaltazione virile:

O liberazione, liberazione, allontana da me la pietà di chi mi ama e l’amore di chi mi compiange, e questa musica e questo vaneggiamento e tutta questa mollezza che non vale il mio letto di paglia. (26)

La reggenza del carnaro wikipedia 300x239 DAnnunzio: divo o superuomo?
Dopo la guerra, e seppur avendo perso l’occhio destro, lo scrittore torna a combattere per la vittoria italiana, che é per lui ‘mutilata‘ senza l’annessione dell’Istria. Il 12 settembre 1919 marcia su Fiume con i granatieri, instaurando la cosiddetta  ‘Reggenza del Carnaro‘. Il governo Giolitti interviene e, dopo cinque giorni, il Vate si arrende, ritirandosi sul lago di Garda, nella villa che diverrà il Vittoriale, una specie di grandiosa prigione dorata, che gli sarà concessa dal Duce in cambio della sua tacita accondiscendenza. D’Annunzio si spegnerà il primo marzo 1938, al suo tavolo da lavoro, e sempre volto all’ infaticabile ricerca di nuovi percorsi letterari.

NOTE:

(1)  G. D’Annunzio, Il Piacere,  introduzione di Giansiro Ferrata, Ed. Mondadori, 1980, p. 31

(2)  ivi, p.163

(3ivi, p. 162

(4ivi, p. 166

(5ivi, p. 420

(6ivi, p. 49

(7)  A.D’Adsdia / P. Mazzamuto Pagine di documentazione critica, ed. Le Monnier, 1979, p.883

(8)  G. D’Annunzio, Il Piacere, op.cit., p.371

(9)  G. D’Annunzio, Trionfo della morte, ed. Mondadori, 1966, p.17

(10) ivi, p. 18

(11) ivi, p. 30

(12) ivi, p. 362

(13) G. D’ Annunzio, Le vergini delle rocce, Ed. Mondadori, 1986, p. 31

(14) ‘La Tribuna‘, 7 giugno 1893)

(15) Pagine di documentazione critica, op.cit., p.877

(16) G. D’Annunzio, Il fuoco, Ed. Newton, p 239

(17) I.De Bernardi/ F. Lanza/ G. Barbero Letteratura Italiana, vol. terzo, Società editrice internazionale, Torino, 1981, p. 91

(18) N. Borsellino / Walter Pedullà, Storia Generale della Letteratura Italiana, vol. X, F. Motta Editore, 2004, p. 809

(19) ivi, p. 819

(20) M. Isnenghi, Il mito della Grande Guerra. Da Marinetti a Malaparte. Ed. Laterza, Bari, 1970, p. 100

(21) A. Bonadeo, D’Annunzio and the Great War, London: Associated University Press, 1995, p. 13

(22) B. Croce, Lettere a G. Gentile, ed. A.Croce, Milano, 1891, p. 493

(23) G. D’ Annunzio, Notturno, Ed. Mondadori, 1983, p. 94

(24) ivi, p.83

(25) ivi p. 125

(26) ivi p. 242


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