Abbiamo incontrato Jacques Audiard, a Roma per presentare il suo ultimo film, Dheepan - Una nuova vita, vincitore un po' a sorpresa della Palma d'Oro allo scorso Festival di Cannes, dove il regista transalpino non era tra i favoriti ma ha finito per conquistarsi i massimi favori della giuria capitanata dai fratelli Coen, sbaragliando la concorrenza. Un Audiard un po' atipico, quello di Dheepan, che si immerge nella scottante e attualissima tematica dell'immigrazione e si discosta, pur senza rinunciare a certe accensioni passionali, dal mélo del precedente Un sapore di ruggine e ossa.
Il film racconta la storia di un ex guerriero Tamil, di una giovane donna e di una bambina che, fuggendo dalla guerra civile nello Sri Lanka, si fingono una famiglia per ottenere il visto da rifugiati in Francia; qui però li aspetta una realtà tutt'altro che agevole, a stretto contatto con i contrasti profondi e le violenze delle banlieu, non così dissimili da ciò che si erano lasciati alle spalle. Un lavoro nel quale pulsa come sempre il tocco magnetico del cinema di Audiard, che anche all'interno di un'opera dai confini più tracciati e didattici riesce a insinuare, passo dopo passo, l'anima profonda del suo cinema viscerale.
Jacques Audiard, lei ha dichiarato che sarebbe stato contento se il suo film avesse aiutato a parlare di immigrazione nel modo giusto.Ritengo che trovare uno sconosciuto, dargli un nome e una storia e filmarlo sia un progetto che, nella sua semplicità, rappresenta già una risposta al problema dell'immigrazione, dato che gli immigrati sono anonimi per definizione. Immigrazione è tuttavia una parola che non mi piace, e preferisco parlare di Dheepan come di un film sull'integrazione. E' la forma del cinema a dare a questi personaggi un sentiero da seguire, un tracciato, un passato come un futuro.
I suoi personaggi, anche in questo caso, finiscono col credere alla violenza come soluzione ultima e inevitabile, l'unica possibile: succede nel finale di Dheepan, ma succedeva anche nei finali di altri suoi film. Il finale, in qualche modo, sempre a proposito di riferimenti cinefili, pare evocare addirittura Rambo, o comunque un'estetica da film sui vigilantes. Come ha lavorato con l'attore protagonista La "moglie " del protagonista, a un certo punto del film, guarda fuori dalla finestra insieme a Dheepan e, durante un conflitto armato, gli dice: "Guarda, sembra di stare al cinema". Il suo film però va in direzione esattamente opposta, è la sua opera di fatto più naturalistica e meno "costruita" dal punto di vista della creazione cinematografica: ci sono un uso marcato della luce naturale, dei momenti poetici sempre molto trattenuti e mai calcati, un montaggio che lei stesso ha definito più evolutivo e libero che in passato, un diverso lavoro con gli attori, che non sono degli attori di professione. Qual è stato il rischio ma anche l'ebbrezza di lavorare in questo modo, per lei inedito?Antonythasan Jesuthasan, che di fatto interpreta sullo schermo la sua storia personale, toccando da vicino il proprio vissuto?
Mi duole ammettere che io per primo sono costretto a constatare ciò nella cronaca e nella vita reale. Episodi di questo tipo ad ogni modo stilizzano i miei personaggi per far sì che diventino eroi di cinema, allontanando i miei spettatori dalla verosimiglianza iniziale per ricordare loro di star vivendo una storia cinematografica e di muoversi all'interno di essa. Non ho certezze a tal proposito, ma è indubbio che una certa vulnerabilità subentri quando le cose vanno male, e tale stilizzazione segna inevitabilmente il passaggio verso il cinema di genere: un turning point dopo il quale lo spettatore deve accettare di seguirmi oltre il verosimile, raccogliendo insieme a me la sfida e lasciandosi prendere per mano. Per la scena della "no fire zone" delimitata dal protagonista mi sono evidentemente ispirato a A history of violence di David Cronenberg, così come è verissimo che la scena finale con la scalinata possa ricordare Taxi driver, per non parlare delle analogie con il mio Il profeta: legami dei quali però mi accorgo solo ora, e che durante la lavorazione del film non avevo elaborato coscientemente.
Di sicuro, ma mi interessava anche il travalicamento di tale confine di genere, non solo la sua messa in scena. Sempre a proposito del finale c'è anche Yalini, la protagonista femminile, che conquista la Londra sognata per un intero film: qualcuno ha avanzato dubbi polemici sull'ambientazione inglese, ma non era assolutamente mia intenzione tessere indirettamente le lodi delle politiche britanniche sull'immigrazione, anzi. A me pare evidente che quella del film non sia una Londra reale ma immaginaria: uno scenario onirico, illuminato per altro da un sole improbabile, che ricorda più l'India. Per vedere quel sole a Londra bisognerebbe aspettare il 2050!
Ho sempre creduto poco alla nozione secondo cui qualcuno che è già sé stesso nella realtà possa poi riportare quel qualcuno al cinema con adeguata forza, in qualità di attore "non attore". Trovo, al contrario, che ci sia sempre un personaggio da mettere in scena e un verso per poterlo incarnare, per chiunque; per cui anche Jesuthasan sapeva che avrebbe dovuto modificare i gesti, la postura e la vocalità per trovare una chiave d'accesso al ruolo. I miei personaggi, reduci da conflitti sanguinosi nei loro paesi, non vengono sottoposti al solito trattamento psicologico che si applica, per esempio, ai militari che prestano servizio in Iraq e che tornano affetti dal cosiddetto stress post-traumatico. Eppure, come dimostra l'esplosione del finale, qualcosa in comune con loro ce l'hanno.
Sono osservazioni giuste e il punto è che dopo Un sapore di ruggine e ossa, che era un melodramma costruito al millimetro in ogni componente e geometria e molto pensato in fase di sceneggiatura, avevo voglia di abbandonarmi a qualcosa di più libero e imprevedibile. Nel caso del mio film precedente si trattava davvero di una sceneggiatura molto "fabbricata", con tutte le virtù ma anche i limiti di tale impostazione; mi mancava però e mi era mancata la libertà di sviluppare delle cose in autonomia. Ecco perché con gli altri sceneggiatori ci siamo prefissati di creare un copione che fosse molto meno "scritto" in senso tradizionale, con maggiori margini di libertà e delle cose lasciate volutamente in sospeso, come la storia d'amore tra i due protagonisti, da sviluppare poi sul set durante le riprese, precisandole e definendole meglio di ciak in ciak. Dato che gli attori non parlavano la lingua della troupe e noi non comprendevamo la loro, trovo che sia stato l'approccio più giusto: un atteggiamento elastico e non rigido, affidato anche all'improvvisazione di molte sequenze, per usare un aggettivo "naturalistico". Molte scene le ho scritte direttamente sul set, nelle pause tra un ciak e l'altro.
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