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2.Omodossia

Creato il 30 aprile 2012 da Kris @zinfok
2.Omodossia
Con questo post vi propongo la seconda parte (su cinque) dell'articolo di cui avevo parlato in 1.Introduzione.
Buona lettura!

 

2. Omodossia

2.1 Il bicchiere mezzo vuoto e quello mezzo pieno

Se stiamo parlando di crisi finanziaria è perché qualcuno ha preso in prestito dei soldi che non riesce a restituire, e la crisi è internazionale perché creditore e debitore risiedono in paesi diversi. Per definizione quindi il problema esiste perché esistono i movimenti internazionali di capitali, cioè perché i risparmi accumulati in un paese possono essere impiegati in un altro paese (sottolineo, en passant, che questo non è di per sé un dato distintivo della moderna globalizzazione, ma qualcosa che è sempre successo)[1]. Ci sarà utile qualche precisazione terminologica.
Gli economisti parlano di importazione di capitali quando i capitali affluiscono in un paese. Questo significa in parole povere che il paese in questione si sta indebitando con l’estero, e quindi accumula passività (perché si presume che i capitali in questione non siano regalie, ma crediti, che, per chi li riceve, sono debiti). Notiamo che all’afflusso di capitale farà riscontro il deflusso di un reddito nei periodi successivi, visto che sui debiti si paga un interesse. La fuoriuscita di capitali è invece un’esportazione di capitali: in questo caso il paese sta accumulando crediti, cioè attività, e al deflusso di un capitale farà riscontro il successivo afflusso di redditi, visto che sulle somme prestate si esige il pagamento di un interesse.
Nessun paese ha solo debiti o solo crediti: la posizione creditoria/debitoria di un paese viene quindi valutata in termini netti (attivo meno passivo). La variazione di questa posizione netta sull’estero (cioè l’accreditamento/indebitamento estero netto di un paese) è il saldo delle “partite correnti” della bilancia dei pagamenti. Concorrono ad esso il saldo commerciale e quello dei redditi, il che significa, in buona sostanza, che un paese si indebita con l’estero se spende (per importazioni e pagamenti di interessi) più di quello che guadagna (per esportazioni e riscossione di interessi); di converso, un paese, per avere risorse da prestare all’estero, dovrà aver guadagnato (esportando) più di quanto ha speso (importando)[2]. Questo dato contabile abbastanza ovvio (anche ognuno di noi si indebita se spende più di quanto guadagna) ha una conseguenza: un paese importatore netto di beni (cioè con deficit delle partite correnti) è anche un importatore netto di capitali, e simmetricamente un paese esportatore netto di beni è anche esportatore netto di capitali. Ciò raccorda le dinamiche finanziarie (indebitamento/accreditamento) a quelle reali (acquisto/vendita di beni).
La comunicazione dei fatti economici tende a essere sempre schermata da valutazioni moralistiche. Il medesimo fenomeno può essere presentato surrettiziamente come positivo o negativo a seconda di quale termine (sempre tecnicamente corretto) si decida di adottare. Esempio: quando i giornali lamentano il fatto che il nostro paese non è sufficientemente attrattivo per i capitali esteri, stanno in effetti deplorando che il nostro paese non si stia indebitando abbastanza con l’estero. Insomma, da prospettive diverse lo stesso fenomeno si presenta in modo molto diverso. In effetti, nessuna variabile economica, e quindi tanto meno l’indebitamento con l’estero (movimenti internazionali di capitale in entrata), è di per sé “buona” o “cattiva”. È banalmente una questione di misura: il troppo stroppia. Sarebbe bello poter dare una valutazione più paludata in vesti scientifiche, ma purtroppo non è possibile. Uno dei limiti, ampiamente riconosciuti e ammessi, della scienza economica è proprio quello di non essere riuscita a fornire una definizione scientificamente fondata da un lato, e operativa dall’altro, del concetto di sostenibilità del debito[3]. Ne è prova il fatto che Nigel Chalk e Richard Hemming intitolano la loro rassegna “la sostenibilità in teoria e in pratica”, proprio per sottolineare questo insanabile scollamento fra teoria economica e indicatori utilizzati in pratica da istituzioni e mercati. Questo limite riconosciuto va ovviamente tenuto ben presente ogni qual volta vengano proposte regole di politica economica che hanno per scopo quello di garantire la “sostenibilità” delle finanze pubbliche, concetto che, come abbiamo visto, può apparire univoco solo a chi non lo ha studiato in termini scientifici.
Un’ultima precisazione: un paese non coincide con il suo settore pubblico e quindi, ad esempio, il debito estero dell’Italia (cioè i soldi che il “sistema paese” riceve dal resto del mondo), non coincide con il debito pubblico dell’Italia (cioè con i soldi che il governo prende a prestito, in Italia e all’estero). È un dato ovvio, ma conviene precisarlo, perché i mezzi di comunicazione ci bombardano con un messaggio fuorviante: nei loro resoconti il debito è tutto pubblico, un po’ come nel dizionario dei luoghi comuni di Flaubert gli agenti di borsa sono tutti ladri, gli architetti tutti imbecilli, le imperatrici tutte belle. Non mi intendo di architetti o imperatrici, ma certamente il debito non è tutto pubblico, e in particolare i capitali che viaggiano da un paese all’altro lo fanno principalmente per sovvenire a esigenze finanziarie del settore privato. In altre parole, indebitamento (deficit) pubblico e indebitamento (deficit) estero non sono “gemelli”. Di norma e in media un punto di indebitamento pubblico si scarica sull’estero solo per un terzo, il che significa che di norma e in media i due terzi degli afflussi di capitale di un paese sono assorbiti dal (cioè sono debito del) settore privato[4].

2.2 Le leggi dell’omodossia

Fatte queste precisazioni, cerchiamo ora di capire come dovrebbe funzionare il mondo secondo l’economia che ho deciso di chiamare omodossa, e che coincide in larga misura con la scuola di pensiero che gli economisti definiscono neoclassica o mainstream, che i giornalisti definiscono liberista, e che gli storici del pensiero tendono a definire marginalista. Sì, forse non ci sarebbe bisogno di introdurre un altro nome per un atteggiamento intellettuale che ne ha già tanti. Ma parlare di omodossia ci aiuta a ricordare che studiosi abbastanza disparati in fondo si ritrovano su alcuni principi fondanti, insomma, sotto sotto la pensano un po’ tutti allo stesso modo.
Un primo principio fondante dell’omodossia è quello dei rendimenti decrescenti, secondo il quale di norma, in un processo produttivo, successivi incrementi di un fattore di produzione determinano incrementi di prodotto sempre minori (se manteniamo costanti gli altri fattori produttivi). Tecnicamente diciamo che “la produttività marginale dei fattori è decrescente”[5]. A contrario, questa legge suggerisce che i fattori di produzione (capitale e lavoro) sono più produttivi dove sono più scarsi.
Una seconda “legge” dell’omodossia stabilisce che i fattori di produzione (capitale e lavoro), vengono remunerati in base al contributo marginale (decrescente) che apportano al processo produttivo. Tecnicamente diciamo che “in un equilibrio di concorrenza perfetta i fattori di produzione ricevono una remunerazione pari alla propria produttività marginale”. A differenza della prima legge, che ha un fondamento “oggettivo” nella struttura fisica del processo di produzione (le virgolette non sono messe a caso, ma per gli happy few), la seconda legge è determinata dal comportamento umano, e in particolare dal movente del profitto[6].
Una terza legge dell’omodossia è quella, a tutti nota, della domanda e dell’offerta. Il prezzo dei beni sui diversi mercati viene determinato dalla loro scarsità relativa, e quindi cresce se un bene è molto domandato o poco offerto, e cala nel caso contrario. Il prezzo è il segnale che orienta le scelte degli operatori e concorre a ristabilire un equilibrio fra desideri e realizzazioni.

2.3 L’armonia prestabilita in teoria...

Le prime due leggi implicano che in presenza di mercati dei capitali perfettamente integrati (cioè con piena libertà di movimento e costi di transazione ridotti), il movente del profitto indirizzerà il capitale dove è meglio remunerato, cioè dove ha la produttività marginale più alta, cioè dove è relativamente più scarso.
Notate le due caratteristiche “virtuose” di questa dinamica.
La prima è che il capitale va dove è relativamente più utile, perché ce n’è relativamente di meno. Il dato “virtuoso” è che i movimenti di capitale aiutano così il “recupero” (catch up) delle economie che “sono rimaste indietro”. Queste si indebitano fisiologicamente per finanziare il proprio sviluppo, esattamente come una giovane coppia laboriosa può accettare un prestito dai genitori per “metter su casa” (il rassicurante moralismo dell’omodossia...). Crescendo, le economie arretrate producono risorse per ripagare i propri debiti.
La seconda è il carattere autoequilibrante. A mano a mano che il capitale arriva, diventa meno scarso, quindi meno produttivo, quindi offre rendimenti sempre minori, fino a che essi non uguagliano quelli prevalenti sui mercati internazionali e l’afflusso non si smorza naturalmente: il paese non contrae più nuovi debiti, e ha capitale (infrastrutture, macchinari, know-how) sufficiente per ripagare quelli già contratti.
Anche la contropartita reale degli scambi finanziari segue una dinamica autoequilibrante, indotta dalla legge della domanda e dell’offerta. Un paese diventa esportatore netto di beni se i suoi beni sono relativamente più appetibili di quelli dei suoi concorrenti. Le conseguenze sono due: da un lato il paese raccoglie risorse finanziarie, che riesporta verso il resto del mondo; ma dall’altro, il prezzo dei suoi beni aumenta, rendendoli meno convenienti, e smorzando così l’esportazione netta di beni e quindi di capitali. Alla fine il movimento dei prezzi riporta i saldi in pareggio. Se il paese è dotato di una propria valuta, e il cambio non è mantenuto fisso dalle autorità monetarie, il primo bene ad apprezzarsi in caso di surplus sarebbe proprio la valuta nazionale (il cambio si rivaluterebbe). Il meccanismo di aggiustamento comunque opera anche in caso di cambio fisso o di unione monetaria, attraverso i prezzi dei beni.
Dovremmo concludere come Pangloss, che “quelli che hanno detto che tutto va bene hanno detto una sciocchezza: bisognava dire che tutto va per il meglio”. Un mondo simile non avrebbe bisogno di avvocati, né di storici, né di economisti: basterebbero ingegneri, giornalisti sportivi e contabili. Ma succede a noi quello che succedeva al povero Candido: il mondo non ci offre lo spettacolo di una simile armonia prestabilita.

2.4 ...e in pratica.

Cominciando dal dato più macroscopico, il più grande prenditore netto di fondi, cioè il paese con il più grande indebitamento estero, è anche quello più sviluppato, cioè quello che, secondo l’omodossia, avrebbe meno bisogno di indebitarsi per finanziare il proprio sviluppo: gli Stati Uniti d’America. Nel 2007 (l’anno precedente allo scoppio della crisi), i paesi in surplus hanno prodotto un’offerta netta di risparmio sui mercati internazionali pari a 1718 miliardi di dollari (di cui circa la metà originata da Cina, Germania e Giappone), e di questa il 41% è stato assorbito dal deficit delle partite correnti degli Stati Uniti[7]. Insomma, più che il recupero di chi è rimasto indietro, i movimenti di capitale sembrano finanziare il distacco di chi è già avanti.
Nel “microcosmo” europeo le cose apparentemente erano andate per il verso giusto. In effetti, nell’ultimo ventennio i principali prenditori di fondi erano stati i paesi che erano rimasti più indietro: Spagna, Grecia e Portogallo. Nel 1993 questi paesi occupavano le ultime posizioni in termini di reddito pro capite della futura eurozona  (con redditi pro capite pari rispettivamente all’84%, al 76% e al 70% della media dell’eurozona). E da allora sono stati i prenditori di fondi più importanti, con un indebitamento estero netto cumulato fino al 2007 pari rispettivamente a 556, 173 e 159 miliardi di dollari. Quindi tutto bene: una posizione panglossiana espressa autorevolmente nel 2002 da Olivier Blanchard e Francesco Giavazzi[8]. Ma anche qui qualcosa non è tornato: gli afflussi di capitale, per quanto ingenti, non hanno aiutato il processo di recupero[9], e soprattutto, anziché diminuire a mano a mano che la dotazione di capitale dei paesi riceventi aumentava, sono andati progressivamente aumentando, sia in termini assoluti che in rapporto al Pil[10].
I due esempi differiscono perché nel primo caso (Stati Uniti) i capitali sembrano andare nella direzione sbagliata (verso i ricchi) e nel secondo in quella giusta (verso i poveri), ma un dato è comune: il carattere persistente, quando non esplosivo, dei flussi, che aumentano nel tempo anziché smorzarsi naturalmente. Non è difficile capire che proprio la persistenza degli sbilanci è all’origine delle crisi cui assistiamo. Quando un paese è inondato di capitali esteri le possibilità di impiego redditizio si rarefanno, i rendimenti diventano sempre meno appetibili e in teoria l’afflusso dovrebbe arrestarsi. Se non lo fa l’eccesso di liquidità che affluisce al paese viene convogliato dal sistema bancario verso spese meno produttive: tipicamente, investimenti immobiliari residenziali, o consumi. Forme di impiego che non generano un reddito sufficiente a ripagare i capitali esteri. Quando poi le cose vanno male la “colpa” viene data a chi si è indebitato, ma la domanda è: perché chi ha prestato soldi, cioè i mercati finanziari, ha continuato a farlo anche in queste condizioni, cioè anche quando era palese che le somme prestate non potevano essere avviate verso impieghi redditizi?

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