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Creato il 25 giugno 2011 da Ghlucio @ghlucio
Nell’aria pareva di sentire ancora l’eco assordante degli spari e l’odore penetrante del sangue. Negli occhi le terribili sequenze dei fatti accaduti quattro giorni prima nel villaggio olimpico, la cui tradizionale inviolabilità era stata profanata da quella assurda carneficina. Fedayyìn, si erano proclamati quegli uomini incappucciati che avevano seminato morte e terrore tra gli atleti israeliani. Una disperata lotta per la libertà, quella del popolo palestinese, era entrata con tutta la sua devastante violenza sul palcoscenico più in vista del momento: l’Olimpiade di Monaco. Quel 5 settembre 1972 segnò per sempre la fine dell’innocenza dello sport, se mai esistette per davvero. Per Avery Brundage, controverso presidente del CIO, lo spettacolo doveva però continuare a tutti i costi. E così fu. Liquidato il massacro con una solenne cerimonia allo Stadio Olimpico, già dal giorno dopo il calendario riprese a scandire gare, partite e concorsi.
Anche il torneo di pallacanestro giunse in porto senza troppi intoppi: Il 9 settembre, il sabato successivo alla strage, era in calendario la finale. Curioso l’orario di inizio, fissato per le 23,45 in obbedienza alle esigenze delle potenti catene televisive americane. A contendersi la vittoria, sul parquet del Basketball Hall, le Nazionali dell’URSS e degli USA, con i sovietici favoriti dal pronostico, ma con gli statunitensi convinti di avere già in tasca la medaglia d’oro. La tradizione era infatti tutta dalla loro parte: dai Giochi di Berlino del 1936 (edizione in cui basket aveva fatto il suo esordio come disciplina olimpica), il team a stelle e strisce aveva vinto ben sessantatre partite senza perderne nemmeno una, salendo in tutte le edizioni disputatesi da allora sul gradino più alto del podio.
Questa volta, però, le cose presero un’altra piega. Non potendo – come allora imponeva il regolamento – schierare giocatori professionisti, gli americani misero insieme un team di atleti universitari con alle spalle solo dodici amichevoli. Al timone ancora il vecchio Henry Hank Iba, un tecnico vincente, ma rimasto legato a un’idea di basket lenta e superata dalle moderne tendenze tattiche.
Tutt’altra cosa la Nazionale in maglia rossa, allenata dal giovane Vladimir Petrović Kondrashin e composta da giocatori che erano dilettanti solo sulla carta. Si trattava, in realtà, di autentici fuoriclasse (Sergej Alexandrović Belov, su tutti), forti di un’esperienza sconosciuta ai giovanotti USA perché costruita in molti anni di campionati, coppe europee e tornei internazionali.
Il fischio d’inizio vide i sovietici riversarsi all’attacco, chiarendo subito a tutti quale sarebbe stata l’impostazione della partita. Ma, dopo quell’avvio tremendo (0-7 dopo pochi secondi), gli americani cominciarono a macinare un gioco ordinato, riuscendo a chiudere il primo tempo su un accettabile 21-26.
Il sostanziale equilibrio proseguì fino a quando, nella seconda frazione, Dwight Jones fu espulso con Ivan Vasilević Dvornij, una riserva fatta entrare – si disse – proprio allo scopo di provocare gli avversari. Poi, come se non bastasse, sugli uomini di Iba si abbatté subito dopo un’altra tegola: nella palla a due che sanciva la ripresa del gioco, Jim Brewer vinse la contesa, ma una spinta maligna da parte del suo avversario lo fece rovinare a terra. In pochi secondi due tra i più forti giocatori americani erano definitivamente out.
Gli Stati Uniti accusarono il colpo. In poco tempo, da un risultato ancora in discussione (al momento della doppia espulsione si era infatti sul 38-34 per gli europei), gli americani andarono rapidamente sotto di dieci punti. Quando però l’esito del match sembrava ormai segnato, a dieci minuti dalla fine la partita cambiò improvvisamente volto: gli universitari cominciarono infatti a giocare come mai avevano fatto in tutto il torneo. L’orgoglio e, forse, la vergogna di dover passare alla storia come i primi cestisti USA a non vincere un’Olimpiade misero le ali agli universitari. Un canestro segnato da Jim Forbes a quaranta secondi dalla fine riportò la squadra a stelle e strisce a un solo punto dagli avversari: 49-48.
A quel punto l’URSS decise di usare tutti i trenta secondi a disposizione prima di andare a canestro, ma il tiro finale di Alexandr Alexandrović Belov – fratello di Sergej – fu stoppato da Tom McMillen. Il sovietico, riconquistata la palla, cercò allora di smarcare un compagno, ma il passaggio fu intercettato da Doug Collins che s’involò verso il canestro. Non ci arrivò, naturalmente, perché due difensori avversari lo stesero senza tanti complimenti.
Inevitabili i due tiri liberi. A tre secondi dalla fine gli americani avevano così, per la prima volta in quella finale, l’occasione di mettere una seria ipoteca sulla vittoria. In lunetta Collins fece il suo dovere: 50-49 per gli USA!
Alla ripresa del gioco, però, accadde l’imprevisto: Kondrashin entrò in campo, protestando con vigore per la mancata concessione del time out da lui richiesto – disse – pochi secondi prima. L’inevitabile fischio dell’arbitro brasiliano Renato Righetto per quell’infrazione si sovrappose al suono della sirena per cui, convinti che la partita fosse terminata, i cestisti americani si abbandonarono a scene di giubilo.
Un’esultanza che durò poco. Un cronometrista fece infatti notare ai giudici di gara che il match non era veramente finito: in effetti il fischio dell’arbitro era arrivato a un secondo dalla fine. Subito dopo, però, arrivò un clamoroso contrordine: William Jones, segretario della FIBA, presente alla finale, decretò (non si sa bene a che titolo) che i secondi da giocare dovevano essere in realtà tre. Le due squadre sarebbero dovute cioè ripartire dalla fine dei tiri liberi precedenti.
Il parquet fu sgombrato ma, nello stesso istante in cui la palla fu di nuovo in gioco, arrivò il fischio della sirena a sancire il tempo scaduto. Era infatti successo che il timer del tabellone, a dispetto della decisone di Jones, era rimasto sul –1'' della precedente interruzione. L’ulteriore invasione di campo e le scene di esultanza da parte dei cestisti USA furono ancora una volta frustrate dal dirigente FIBA che, irritato, ribadì con forza la sua decisione: si dovevano giocare tre secondi, non uno.
Si ripartì per la terza volta, non prima di aver correttamente riportato il cronometro sul –3”. Da fondo campo Ivan Edeshko lanciò la palla verso l’area USA, scavalcando i tre avversari che gli si erano parati davanti. E qui accadde l’incredibile: nel tentativo di intercettare quel lancio i due difensori Kevin Joyce e Jim Forbes si scontrarono in volo, dando il via libera ad Alexandr Belov che, incredulo, andò a canestro giusto un attimo prima della sirena: 51-50. Medaglia d’oro!
Le aspre polemiche e la bocciatura del ricorso USA resero il dopopartita incandescente, anche se, osservando le immagini televisive, pare proprio che quel time out fosse stato richiesto correttamente dal coach sovietico.
Gli uomini di Iba non vollero sentire ragioni: perdere la finale (e l’egemonia olimpica) in quel modo e, per giunta, contro i sovietici in piena guerra fredda, fu davvero troppo. Dichiarando di aver subito un autentico sopruso, non si presentarono alla cerimonia di premiazione.
Ancora oggi ci sono dieci medaglie d'argento custodite nel caveau di una banca di Losanna (da sempre sede del CIO) in attesa di essere ritirate.È facile prevedere che vi resteranno per sempre.
http://www.storiedisport.it

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