1. Premessa
2. Il diavolohai delle grandi proprio pupille/tu sei Annie e le hai Giuliano Mesa
3. Kay
Tutto ebbe inizio in una città che è il luogo del destino per eccellenza. Ma che è anche un posto in cui di rado c’è spazio per i giardini, specialmente nei quartieri più degradati o quelli in cui la gente ci va solo a dormire e ci lascia i figli per forza di cose da soli o guardati da altri. Siccome Gerda e Kay non avevano un giardino in cui poter giocare, decisero di eleggere a giardino un paio di vasi pensili sospesi tra i loro due balconi che non si sa se per caso o perché il diavolo volle così, erano dirimpettai. Erano felici grazie a quel giardinetto pensile che d’estate era coloratissimo e profumato di rose, a cui si affacciavano per guardarsi d’inverno, e per guardare la neve che cadeva. Kay era innamorato della neve, lo era da sempre senza sapere perché. La neve per Kay, era qualcosa che gli apparteneva anche da prima di quando d’inverno si affacciava alla finestra chiusa per giocare ai segni con Gerda che lo aspettava all’altra finestra, mentre i fiocchi turbinavano tra loro come uno sciame di api bianche, la cui regina però tardava a comparire. Ma passò qualche stagione e la regina comparve. Accade quando arrivò un inverno particolarmente freddo. Si susseguirono molte settimane in cui la città pareva così chiusa dalla morsa del gelo da sparire sotto montagne di ghiaccio. E ogni giorno verso le cinque cominciava a nevicare prima piano poi sempre più turbinosamente come fa la neve che non perde mai leggerezza anche quando è violenta. Verso le cinque Kay usciva per non perdersi quello spettacolo tutto intabarrato ma con la testa e il naso scoperti perché gli pareva che così vedendo meglio quel candore potesse fiutare anche il profumo bianco e un po’ mischiato alla polvere diabolica dello specchio, come tutte le cose del mondo ormai. Forse, quel profumo gli pareva così buono e ricercato, anche per via della malia dello specchio, che per quanto cattiva e indegna, non ci dimentichiamo che era una magia ispirata dal padre di tutte le tentazioni. E’ più probabile che fu così che Kay si ritrovò una scheggia di specchio nell’occhio e peggio un’altra che passando dal naso gli raggiunse il cuore, seguendo una di quelle traiettorie improbabili e perverse che solo il caso, o il diavolo in persona, sanno direzionare come peggio non si potrebbe. Secondo Andersen invece Kay si buscò questo malanno un giorno d’estate mentre leggeva un libro insieme alla sua Gerda per cui a un tratto il loro giardino sospeso gli apparve quale era, cioè un paio di vasi striminziti abbarbicati tenacemente su un balcone di periferia, e Gerda soltanto una mocciosa. Forse, come spesso accade, erano vere tutte e due le cose. Forse l’inverno prima, insieme ad essere colpito dalle schegge impazzite dello specchio, Kay rimase folgorato su quella stessa strada da una donna che come scrive Andersen “aveva gli occhi fissi come due stelle chiare, ma in essi non c’era pace né tranquillità” e la cosa peggiore fu che quella donna bella, come Kay non ne aveva mai viste, in quell’occasione fece cenno proprio a lui di seguirlo, come se lo conoscesse da sempre, ma Kay non riuscì a raggiungerla, perdendosi man a mano che la tempesta di neve aumentava. Così l’estate successiva, è probabile che leggendo l’ennesimo libro insieme a Gerda non si fosse per niente dimenticato di quell’episodio, perciò fu da quel momento che la sua amica cominciò ad avvertire quanto Kay fosse cambiato. Andersen ci dice che Kay faceva giochi più “seri”, giochi adulti che Gerda non capiva, come quello di imitare gli altri cosicché non si capiva più se Kay era Kay o solamente uno qualunque che faceva cose qualunque o si metteva al microscopio ad analizzare per ore un fiocco di neve ritenendolo, diceva, la forma più bella che la natura avesse inventato, perfetta e assoluta, come non lo saprebbero mai state le loro rose nei vasi. Gerda era preoccupata, più passava il tempo, più Kay diventava distante finché ancora una volta arrivò l’inverno. E con l’inverno Kay riprese l’abitudine a uscire dopo le cinque aspettandosi da un momento all’altro che nevicasse. Ma la neve non arrivava e Kay era sempre più nervoso finché un giorno alla fine di febbraio poco prima delle cinque cominciò a cadere come fa la neve: i primi fiocchi impercettibili che non sembra neve, sembra acqua o quello che chiamano nevischio che non c’entra niente con gli impareggiabili fiocchi con cui la neve è capace di fare silenzio intorno, solo perché arriva nei luoghi come fanno le grandi dame o grandi spiriti. Kay corse a rotta di collo giù per le scale come se avesse il sentore che finalmente l’ora e il luogo dell’appuntamento con il suo destino fossero giunti, e aveva ragione perché quando lo sciame bianco della neve infittì comparve pure la regina. “Abbiamo fatto una bella corsa!” disse la regina a Kay con uno strano sorriso “Ma che freddo, vieni, ficcati nella mia pelliccia d’orso” e lo disse come se anche per lei con Kay si fosse trattato di riaprire un discorso che in realtà non s’era mai interrotto. Magari anche da prima delle schegge, che forse avevano solo un po’ aiutato le cose a prendere la piega che già di loro non vedono loro di prendere, diavolo o no. Poi la regina della neve baciò Kay, e lo baciò di nuovo e infine disse “Adesso non ti bacerò più, perché finirei per farti morire” ma mentiva, e lo baciò ancora e ancora. Continua …
da “La regina della neve nella riscrittura quasi fedele di Viviana Scarinci”