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36 ore da spettatrice, o quasi, a Londra 2012

Creato il 04 agosto 2012 da Sdemetz @stedem

Cosa si può imparare quando si visita un grande evento per sole 36 ore? Le prime impressioni sono quelle che contano, ma sarebbe ingenuo fermarsi davanti alle apparenze. Oltretutto io non sono, ahimè, una spettatrice ingenua.  E poi un giorno e mezzo sono pochi.  Ecco allora  il mio racconto fotografico di impressioni spot dalle quali comunque si può imparare qualcosa.

Crisi economica e Giochi Olimpici

36 ore da spettatrice, o quasi, a Londra 2012

La prima impressione è frutto delle letture fatte alla vigilia della mia partenza. Un articolo della Harvard Business Review si presenta con un titolo significativo: What The Olympics really mean: victory over austerity. I Giochi, si dice nell’articolo, non sono sport. Sono prima di tutto un’ impresa economica con appalti dati ad aziende inglesi (e per il 75% extra londinesi) con lo scopo di far crescere l’economia e offrire opportunità di lavoro.  Lo sport per Londra 2012, secondo l’autore, è un affare economico, non solo per il “lavoro”, ma anche  per migliorare la salute pubblica e abbattere i costi della sanità.  Non bastano, si dice nell’articolo, impianti sportivi. È necessario … ispirare una nuova generazione e portarla a praticare sport grazie all’emulazione dei campioni. Salute pubblica significa meno costi per la sanità. Abbiamo visto tutti la cerimonia d’inaugurazione e lo spazio dedicato al servizio sanitario inglese e abbiamo visto pure i ragazzini accendere la fiamma olimpica secondo il claim “Inspire a generation”. È  su di loro che questo paese ha investito per affrontare la crisi economica. Ce la farà? Questa è la sfida più grande.

No sponsor no game

36 ore da spettatrice, o quasi, a Londra 2012
La presenza degli sponsor e della loro battaglia per difendere i propri investimenti milionari è costantemente argomento di articoli, talvolta dal tono nostalgico e moralista, contro la commercializzazione dello sport. Le Olimpiadi, ma anche la Coppa del Mondo di Calcio, da questo punto di vista sono estremi. La Visa è uno sponsor ufficiale e dentro il parco olimpico è l’unica carta di credito accettata, ma te lo dicono in modo carino. Le aree di gara sono splendide: niente sponsor, e niente caos di marchi, ma solo il look olimpico e  London 2012. La visibilità per gli sponsor passa dunque altrove e dunque va difesa con le unghie. Esiste un dipartimento che si chiama generalmente  Brand Protection, una sorta di gestapo che stana gli abusivi ed è armata di forbici e scotch nero per  coprire i marchi proibiti. Nulla di nuovo. Anche a Torino esisteva e queste regole mi costrinsero a chiedere al medagliato Rainer Schonfelder di togliersi gli occhiali durante la conferenza stampa. Il brand non era consentito. Chi conosce questo sciatore austriaco, che allora aveva le unghie pitturate di nero, può immaginare la sua reazione. Solo un mio richiamo supplichevole in dialetto sudtirolese lo convinse a fare il bravo ragazzo.

D’altro canto se Adidas a Londra ha investito milioni di euro e la Nike, che non è sponsor, produce spot promozionali in altre “London” sparse per il mondo, come racconta un articolo sul Washington Post, è comprensibile il nervosismo dello sponsor tedesco. Gli stessi cerchi olimpici sono protetti. Si dice che essi siano il brand con il valore più alto al mondo.

Non c’è via d’uscita però. Gli sponsor sono necessari. Senza sponsor niente sport, e gli investimenti vanno protetti. Le critiche a tutto ciò fanno parte del gioco.

Alcune “storpiature”  che vogliono svelare una certa dose di ipocrisia che si nasconde dietro lo spirito olimpico le trovate qui: i cerchi e gli squilibri nel mondo, sport e junk food.

Ma ora veniamo all’evento e a cosa si può imparare.

Servizi allo spettatore

36 ore da spettatrice, o quasi, a Londra 2012

Potrei dire che erano perfetti. Dalla cortesia dei volontari, dalla ricchezza di informazioni al non doversi preoccupare per nulla. La mia compagna di viaggio già gioiva all’idea di fare amicizia nelle tante code che necessariamente avremmo dovuto affrontare, invece non c’era code e se c’erano, come per entrare al mega store del merchandising ufficiale, erano veloci e fluide. Quindi: niente amicizie olimpiche.

Era pieno di volontari, a volte si vedevano solo loro. Si dice che ce ne fossero troppi, ma meglio tanti che buchi sparsi nei servizi ai tanti “clienti” olimpici! Le guide al management degli eventi sportivi consigliano sempre di considerare un contingente maggiore rispetto al necessario. Non si sa mai, che uno si pigli la felpa e poi fugga altrove.

Non era però solo la cortesia. La forza dei tanti volontari è stata la disponibilità a risolvere il problema. A sapere sempre che risposta dare. La loro preparazione è stata straordinaria, non c’è dubbio!

Le toilette

36 ore da spettatrice, o quasi, a Londra 2012
Lo so, scrivo di Olimpiadi e parlo di bagni, ma questi sono spesso un problema agli eventi. Non si trovano o sono pochi o sono sporchi. Qui ho trovato una marea di bagni e sempre pulitissimi e di nuovo senza coda. Non solo, erano children friendly, con un lavandino appositamente per i più piccini.

Il senso? Se i bagni sono puliti non te ne accorgi, se sono sporchi ti lamenti e riversi sull’organizzazione un’immagine negativa. Credetemi, nelle varie analisi sulla soddisfazione allo spettatore fatte nella mia piccola manifestazione, la Coppa del Mondo di Sci, il bagno è un nervo scoperto, sempre!

Il mangiare e il bere

36 ore da spettatrice, o quasi, a Londra 2012
Un altro dei problemi agli eventi è garantire cibo e bibite per tutti. Ovviamente il Mc Donalds era presente (in quanto sponsor) e inoltre c’erano punti di ristoro immensi pieni di insalate e panini pre-confezionati. Anche qui, senza coda e senza spintoni alle spalle.

Il cibo non era un granché, ma per chi avesse voluto, all’esterno dell’Olimpic  Park, intorno e dentro l’immenso centro commerciale che lo circonda, era pieno di pub e ristoranti.

Mi sono piaciuti soprattutto i ragazzi vestiti di nero, distributori di acqua.

Li vedevi da lontano per la bandierina bianca con su scritto “Water” In caso di sete … il servizio era quasi a domicilio.

Bella idea e utile per evitare code e soprattutto sintomo di un “capire” le esigenze dello spettatore.

La segnaletica

36 ore da spettatrice, o quasi, a Londra 2012

Semplicemente perfetta. Il colore rosa scelto dagli organizzatore era visibile a distanza, sia in metropolitana, sia intorno e dentro i siti ufficiali. Vicino a ogni destinazione era indicato anche il tempo di camminata (abitudine londinese, evidentemente, perché anche tutte le fermate degli autobus ti dicono quanto ci metti a piedi per raggiungere altre fermate nella zona circostante). L’Italia ha molto da imparare e anche noi, organizzatori minori.  Anni fa un collaboratore a un evento mi disse che i cartelli non servivano, perché semmai uno chiede! I cartelli invece sono un must e devono essere riconoscibili e chiari. Servono come strumento di comunicazione, come elemento di “atmosfera” sull’evento e soprattutto, di nuovo, sono un’indice chiaro del livello di comprensione dei bisogni dello spettatore.

Animazione pre gara

 

36 ore da spettatrice, o quasi, a Londra 2012

Probabilmente le Olimpiadi hanno già dentro di sé una tale forza narrativa ed evocativa, che non è necessario, una volta entrati nello stadio, essere accompagnanti all’inizio della competizione con grandi sforzi. La cosiddetta Fan TV, che intervista tifosi, o i micro spettacoli pre-gara che sono molto diffusi nella coppa del mondo di sci, sono superflui alle Olimpiadi. Ovviamente c’era un intervistatore e c’erano gli schermi giganti che prima della gara coinvolgevano gli spettatori più colorati (per la ragazza messicana qui sopra tutto il pubblico ha cantato un rombante Happy Birthday!) e c’era lo schermo gigante che mandava di tanto in tanto un invito “Make noise”.  Nulla di speciale, insomma. Forse perché, appunto, le Olimpiadi si autoalimentano con il proprio potere evocativo

Bellezza

36 ore da spettatrice, o quasi, a Londra 2012

La bellezza dello sport ha trovato un suo alter ego nella bellezza delle architetture del parco olimpico. Ho scelto di assistere alla finale di tuffi sincronizzati perché volevo entrare nell’impianto progettato da Zaha Hadid. Certo le Olimpiadi hanno risorse che altri non hanno. Eppure anche nel piccolo la bellezza del gesto atletico dovrebbe essere rispettata. L’ho già scritto tempo fa a proposito del management. Ora lo scrivo anche a proposito dell’ambiente in cui ci si muove per assistere a una competizione sportiva. Lo sport non è solo di veicolo di valori educativi, ma anche di bellezza.

La massa silenziosa

36 ore da spettatrice, o quasi, a Londra 2012

Calma e serenità. Questa è stata la sensazione che provavo mentre ero seduta su una panchina della world square del parco olimpico. Una massa infinta di persone che camminava, come fosse un incrocio di fiumi di acqua cheta, da un luogo all’altro. Divoravo il mio wrap e osservavo. Persone con accredito al collo, volontari, dirigenti, spettatori, famiglie, gruppi di sponsor, ognuno che andava da un luogo all’altro.

E mentre li guardavo mi mancava qualcosa: la relazione, il dialogo, l’entusiasmo, la commozione, la solennità di essere in un luogo speciale, la consapevolezza di vivere un momento unico.

Forte è stata questa impressione opaca  a Trafalgar Square, una sorta di sito olimpico aperto a tutti, in cui semplicemente si transita e ci si siede per riposarsi.  Sorprendente  è stata dentro il parco olimpico. Non c’era, di nuovo, animazione per il pubblico, ma soprattutto non c’erano occhi spalancati e avidi di conoscere. Ricordo Vancouver, i passati giochi olimpici invernali, dove per strada quasi venivi fermato e interrogato: da dove arrivi, cosa, fai, chi sei? Ricordo Torino, una città piena di gente con lo sguardo strabiliato, tra i portici e il profumo di caffè, le luci di medal plaza e i palazzi illuminati. La gente, ed era tanta, era gente olimpica. Qui no. Come se l’emozione fosse vivibile solo nel tempo limitato della competizione. Tra un tuffo e l’altro il pubblico  sugli spalti era entusiasta,  poi all’uscita, silenzioso.

Perché mi chiedo? Forse fa parte della cultura? Forse è la città, Londra, abituata ad accogliere il mondo e dunque non particolarmente entusiasta verso il pubblico olimpico? Prima di partire avevo letto un articolo sulla gente in metropolitana, che ti faceva vivere l’olimpiade già lì. Evidentemente il giornalista ed io abbiamo preso treni diversi, perché in metrò non si percepiva nulla. Alle Olimpiadi di Barcellona ogni giorno conoscevo qualcuno in metrò, ma forse lì ero io: 22 anni e una voglia di mangiarmi il mondo. O forse, la lezione che imparo da tutto ciò, è che per quanto un’organizzazione possa essere buona la cultura del luogo è una di quelle variabili intangibili di cui si deve tenere conto. È  un elemento strutturante e sarà ciò che al di là di tutti gli sforzi per presentarsi bene, darà il colore e il tono all’evento. Sia chiaro, nulla contro Londra, semplicemente tutto è stato perfetto nella mia breve esperienza, ma mi è mancato quel guizzo di commozione negli occhi delle persone che incontravo per strada. Quel guizzo, che altrove mi ha sempre contagiata.

Amici

36 ore da spettatrice, o quasi, a Londra 2012

Infine, a prescindere da tutto, gli eventi sportivi sono per me soprattutto una cosa, la più intensa forse, la più importante: le amicizie. I miei migliori amici li ho conosciuti ai grandi eventi. A Londra ci siamo riuniti tra spettatrici e un lavoratore dopo alcuni anni di assenza. Facendo mio lo slogan di un brand concorrente di Visa, concludo affermando che sedersi da Starbucks, bere un cappuccino gigante e ascoltare e fare domande e raccontare avendo consumato insieme altri eventi simili è qualcosa che non ha prezzo. Che vale una visita a Londra 2012!

Il fotoracconto continua su flickr!

Filed under: Visti dalla parte dello spettatore Tagged: cultura, evento sportivo, events, harvard business review, London 2012, olimpiadi, spettatori, sport, sport events, sportbusiness, volontari

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