Siamo già al terzo appuntamento, eh. E’ il nostro terzo mesiversario. Non siete emozionati? E non mi portate nemmeno fuori a cena? Nemmeno dei fiori? Dai, una scatola di cioccolatini, però? Va beh, fate come vi pare. Me la legherò al dito.
Insomma, benvenuti. Oggi siamo pronti a trattare un tema che è sempre più diffuso nel cinema. Una piaga che colpisce in modo sempre più forte il mondo filmico. Un problema che talvolta non trova soluzioni ma solo un semplice vaffanculo. Oggi parliamo delle sceneggiature rincoglionenti™.
Che cosa intendo per sceneggiature rincoglionenti™? Parlo di quelle pellicole con zero trama ma caratterizzate da avvenimenti che succedono completamente a caso. Avvenimenti che viene da chiederti quanto siano funzionali alla storia ma che sai benissimo che la risposta sarà zero. Spesso queste tipologie di sceneggiature sono utilizzati in film filosofico-riflessivi, in thriller onirici e in puttanate giapponesi. Ed è proprio di queste tre tipologie di film che parleremo oggi. Cominciamo.
Al terzo posto troviamo il cugino sfigato di Moon, bellissimo film del 2009 che consiglio diretto da Duncan Jones. Ovvero Love diretto dall’esordiente William Eubank e prodotto dalla rockband Angels & Airwaves. Ignoro così completamente chi siano che pensavo che il titolo della pellicola fosse Love: Angels and Airwaves. Sbagliando. In questo film seguiamo un astronauta in orbita attorno alla Terra che, a bordo di una piccola stazione spaziale, si ritrova a svolgere alcune azioni routine e di manutenzione guidato dal comando centrale. Fino a quando, a venti minuti scarsi dall’inizio, il comando centrale sparisce. Nessuno risponde più e il nostro simpatico astronauta chiaccherone si ritrova solo soletto nello spazio. Da qui in poi, delirio. La storia scompare, cominciano ragionamenti filosofici sull’amore (ma va?), sulla vita, sull’esistenza e sulla compagnia degli altri esseri umani. Tutto così per 80 e passa minuti. Senza logica, senza senso. La classica pellicola filosofica-esistenzialista che cerca di dettare frasi poetiche ad ogni linea di sceneggiatura, riuscendoci solo in parte. A dire il vero non annoia particolarmente. Sarà per la ridotta durata di questa pippa mentale, sarà che è tutto realizzato molto bene e che la claustrofobia spaziale è molto ben resa. Pensate se Ryan Reynolds, quando si risvegliò all’interno di una cassa da morto e con un’ora e mezza di ossigeno a disposizione, avesse cominciato a riflettere sull’esistenza, sulla vita e sulla morte. Wow. Non c’è bisogno che vi dica che non esistono colpi di scena ma solo scelte stilistiche da lasciarti sconcertato causa la loro stranezza vedi il finale con qualche riferimento a 2001: Odissea nello Spazio ma completamente secco, tagliato e brusco. Tipo da prendere i pop corn e tirarli contro lo schermo. Concludendo, questa pellicola è un tentativo di realizzare un film concettualmente profondo, fallendo in parte nell’intento, riuscendo ad essere solo un ammasso di frasi ad effetto accompagnate da una certa efficacia dal punto di vista visivo. C’era una volta Pal Sletaune. Pal è un regista norvegese che nel 1999 rifiutò di girare American Beauty perchè, secondo lui, la sceneggiatura non era abbastanza buona. Era una sceneggiatura così scarsa che nell’edizione del 2000 dei premi Oscar, la pellicola vinse miglior film, miglior attore, miglior regia, migliore fotografia e, soprattutto, migliore sceneggiatura originale. Appena ho letto questa notizia ho cominciato a dubitare dell’intelligenza registica di quest’uomo considerato che avevo preso visione del suo ultimo lavoro ovvero il Babycall uscito poco tempo fa al cinema. Film solo poco più che sufficiente di cui abbiamo già parlato precedentemente. Mentre indagavo sulle altre imprese registiche di questo soggetto, mi sono fatto attirare da un suo film del 2005 con la tagline che urlava a gran voce “un omaggio a Roman Polanski con atmosfere alla David Lynch”. Più o meno, dai. Quindi mi sono detto perchè non provare a vederlo considerato che dura poco più di un’ora e un quarto, titoli di coda compresi? Perciò al secondo posto abbiamo Naboer – Next Door. Un’ora e un quarto in cui succede una valanga di roba strana in crescendo fino al classico finale che ti lascia in silenzio sul divano mentre cerchi di decidere se è stato un film carino o devi prenotare un biglietto aereo per la Norvegia per andare a squarciare le gomme dell’auto di Pat. La trama: John abita di fianco a Kim e Ingrid, due ragazze piuttosto fuori di testa che parlano di qualsiasi cosa facendo continue allusioni sessuali di cui non faccio esempi. Il ragazzo è stato lasciato da poco dalla sua ragazza che è scappata con Ake causa le strane abitudini sessuali del povero John al quale piace randellare di mazzate la donna con cui sta avendo un rapporto. Tutto normale, tranquilli. E da qui in poi si assistono a eventi strani con appartamenti che compaiono dal nulla, corridoi che crescono e si restringono ogni due minuti, ferite che sgorgano sangue mentre il secondo dopo sono già richiuse e belle che suturate, uomini che fissano le persone di nascosto e che scappano spaventosamente aiutati dalla colonna sonora con aumenti di volume improvvisi e pareti che vengono erette in nottate. No, non voglio spiegarvi troppo perchè sarebbe, primo, uno spreco di tempo e, secondo, eliminerebbe l’effetto sorpresa di qualsiasi colpo di scena. Insomma, concludendo, non è un brutto thriller, anzi. Le atmosfere non sono malaccio, è tutto molto onirico e anche piuttosto inquientante. Persino i colpi di scena sono carini. L’unica pecca sono le interpretazioni sono un po’ da film erotico notturno su 7Gold. Gli appassionati del genere possono buttarci un’occhiata, dai. Al primo posto abbiano un film giapponese. “No! Ancora i giapponesi?” Eh sì, lo so. Mi dispiace ma loro sono cinematograficamente mentalmente instabili. Sono completamente fuori di testa. Mentre sto scrivendo questa mini introduzione non l’ho nemmeno ancora finito di vedere. Perchè, come ho detto a mia madre mentre cercavo di spiegare che costa stavo guardando, questo è un film giapponese surrealista 2.0 demenziale senza senso della durata di due ore e mezza. Occazzo. Sto parlando di Funky Forest – The First Contact, pellicola del 2005. Ora, se mi scusate e se non mi addormento, vado a finire di vederlo che altrimenti non riesco a continuare. Grazie.Senza parole #1
Oh, sinceramente ‘sti film giapponesi impostati sul nonsense e con questo umorismo demenziale mi hanno rotto le palle. La storia non esiste ma seguiamo solo alcuni personaggi in episodi scollegati (quasi) completamente l’uno dall’altra partendo con tre zitelle giapponesi che si ubriacano e spettegolano, passando per i Guitar Brothers (non fate domande), salutando con la manina personaggi che praticano sport strani e sogni inutili da parte dei vari protagonisti che prima immaginano di ballare con cartoni animati senza corpo e poi di suonare con dj che usano gli alberi come console. Ma, insomma, che cazzo ci devo trarre da un film del genere. Inizia come possibile film di fantascienza demenziale e poi sfocia nel.. nel… boh, non lo so. Ma guarda te se devo stare qui a perdere del tempo per cercare di catalogare un film di merda come questo.
Senza parole #2
Come potrei giudicare delle interpretazioni in un film del genere poi? E soprattutto chi sono io per giudicare delle interpretazioni? Ma quindi chi sono io? Ecco, vedete! Questa pellicola causa grandissimo caos mentale e sconvolgimenti psicologici demenziali. Cioè non so proprio da che parte prenderla. La colonna sonora, invece, a tratti è abbastanza decente mentre in altri momenti pare solo una melodia leggermente qualitativamente superiore del tema di Tetris in versione polifonica. Robe che si poteva affidare alla Nokia e ad una schiera di 3310, l’intera composizione musicale del film. E poi…
Va beh, basta. Ci risentiamo tra un mese.