da qui
Marco arriva stremato al termine del giorno. Ha bisogno di un metodo per rilassarsi e togliersi di dosso la polvere che si accumula per le grane, le contraddizioni, i rospi da ingoiare. Ha provato con l’omeopatia, la melatonina – consigliata da non ricorda chi -, fino alla Paracodina in gocce, utile anche per la tosse. Alla fine escogita una soluzione originale: pensare a un luogo, sempre lo stesso, percorrerlo lentamente in lungo e in largo, finché non si addormenta. E’ uno rio di Venezia, a pochi passi da Piazza San Marco e il Ponte di Rialto, tra Corte Nuova e Corte Gregolin, nel centro delle Mercerie; in primo piano c’è una trattoria costellata di foglie esotiche che esplodono sull’acqua con fiori rosa come labbra di donna; lanterne in ferro battuto gettano una luce fioca sui mattoni beige e sull’arco con il bordo in marmo; più avanti si succedono palazzine arancioni, bianche e gialle, unite da un ponte in pietre chiare che sembra gettato tra la veglia e il sonno, il dolore dei conflitti diurni e la pace innaturale della notte, in cui Marco sogna sempre la stessa scena, come se tutta la vita potesse contenersi nel rio di Venezia a pochi passi da Piazza San Marco e il Ponte di Rialto, con l’acqua che riflette il ricordo dell’infanzia del bambino timido, la prima cantonata, quando all’asilo confuse le porte ed entrò nella classe del fratello maggiore, tra le risate generali, o quando invidiava la Pelikan a inchiostro verde e nera di Vincenzo Cerere, il compagno di banco, o quando s’innamorò degli occhi verdi della Persighetti, o quando fece a pugni sul campo di calcio pieno di polvere e livore, o quando si rinchiuse per la prima volta nella cabina dello stabilimento con la ragazza di Ciro, che poi venne a cercarlo con la banda dalle borchie nere. Nei riflessi del rio si leggono chiaramente i primi versi che scrisse, in onore del tempo perso, quando sua madre gli disse che non poteva campare di parole, la faccia delusa del padre alla notizia dell’iscrizione a Lettere, il giorno che strappò un bravo! al Professore, il seminario all’università in cui gli studenti a bocca aperta ascoltavano la sua lezione sulla luna di Calvino, le lacrime di ghiaccio che non riusciva a trattenere alla morte dell’amico, il movimento lento contro la pelle bianca della donna confuso con quello della gondola che scivola nel rio, sfiorando la trattoria dalle lanterne in ferro che lo scortano con la luce fioca, lo ipnotizzano, finché ora, finalmente, dorme.