di Carl Rinsch
con Keanu Reeves, Cary-Hiroyuki Tagawa
UK, Giappone, 2014
genere, 118'
Strano ibrido quello di “47
Ronin”, film che mischia incantesimi e Samurai, e che da tempo figurava
nei memento di cinefili e semplici appassionati per la presenza
dell’attore che meglio ha rappresentato un modello di mascolinità
contemporanea, sempre meno definita sia sul piano emotivo che su quello
dell’identità sessuale. Caratteristiche di neutralità che il film di
Carl Rinsch prende in prestito, consegnando a Keanu Reeves il ruolo di
Kai, mezzo sangue allevato da un signore della guerra di cui sarà
chiamato a vendicare l’onore; per farlo Kai si unirà ai Ronin del
titolo, disorientati e raminghi, ma pronti alla morte pur di consegnare
il colpevole alla meritata punizione. Da questo punto di vista “47
Ronin” è quasi un classico, presentando una storia incentrata
sull”ennesimo scontro tra bene e male, con i valori di coraggio e di
lealtà della cultura giapponese simboleggiati dal codice etico del
samurai, contrapposti all’ambiguità ed alla cupidigia del diabolico
Kira, disposto a tutto pur di soddisfare la sua brama di potere.
Una tradizione che però viene
meno sul piano formale, quando “47 Ronin”, decidendo di mettere in scena
un Giappone edenico e feudale, disegnato su sfondi di armoniosa
compostezza, e organizzato sulla conservazioe di di valori
imprescindibili, quelli degli Shogun e dei samurai, non rinuncia al
cortocircuito postmoderno che si fa beffa di steccati e tradizioni,
popolandone il paesaggio con incantesimi e malie, tra arcani
incantatori e metamorfosi favolose che, alla maniera del fantasy
più recente entrano in gioco ogni qualvolta Kai e la sua banda sono
costretti ad incrociare la strega intepretata da Rinko Kikuchi, già
apprezzata in “Babel” e “Pacific Rim”, mutaforme e letale nel mettere in
pratica la volontà del suo padrone. Se i motivi di curiosità del film
si poggiavano sulla curiosità di constatare lo stato di forma, peraltro
ottimo, di una star da tempo lontana dagli schermi “47 Ronin” attirava
l’attenzione anche per la sfida di proporsi a metà strada tra vecchio e
nuovo, con la rappresentazione di un mondo affascinante e leggendario,
chiamato a confrontarsi con le manipolazioni, tecniche e contenutistiche
del cinema più moderno. Una scommessa che il film di Rinch vince solo a
metà; perché se è vero che i riferimenti alla rappresentazione della
stirpe guerriera, con le liturgie ed i rapporti di forza che la
contraddistinguono, riesce a rispettare la consuetudine iconografica
senza risultare inadeguata alla sua natura mainstream,
a non convincere è la sincronizzazione delle sue componenti, diseguale
nell’alternare lunghi momenti di stasi, a cambi di passo che l’uso del long take
indebolisce nella loro funzione alternativa. La sensazione è quella di
un film squilibrato, ed in certi cosi dilatato da affievolire l’impatto
drammaturgico. A suo vantaggio però il fascino vintage, e l’indubbio carisma di Keanu Reeeves, ancora imprescindbile in questo tipo di operazioni.(pubblicato su dreamingcinema.it)
