Jonathan Levine, 2011 (USA), 100'
uscita italiana: 2 marzo 2012
voto su C.C.
Di questi tempi è difficile entrare nel vostro multisala (brr) preferito e non imbattersi almeno una volta nel faccione assorto di Joseph Gordon-Levitt. In 50/50 interpreta un ragazzo che scopre per caso di essere affetto da un raro tumore della spina dorsale e, prevedibilmente, assiste al crollo del suo piccolo universo di relazioni sociali: la madre iperprotettiva (Anjelica Huston) vede profilarsi il più grande incubo, la fidanzata frigida (Bryce Dallas Howard) tenta di accudirlo ma poi lo tradisce con la caricatura di un artista, l'amicone Kyle (Seth Rogen), pur spinto da un affetto sincero, si comporta perennemente da misogino egoista; persino la specialista che dovrebbe confortarlo (Anna Kendrick) diventa un problema, perché fresca di college e al primo incarico serio. Ovviamente, nessuna di queste preoccupazioni può essere più grande di quella per la propria vita, appesa al sottile filo delle probabilità di sopravvivenza, stimate da un sito come 50 e 50.
Quando ci si convince che un film dovrebbe finire in un certo modo, è facile restare profondamente delusi da ogni altro sviluppo proposto dai volenterosi autori. Il regista Jonathan Levine sceglie il registro della bromedy (commedia per maschietti) per affrontare un tema sempre delicato come quello della malattia, ma non dimostra sufficiente coraggio per portare a termine il suo compito fino in fondo, tenendo fede all'interessante premessa nascosta dietro il titolo della sua opera – parrebbe, tratta da una storia vera. Durante tutto il film, l'unico indizio che il personaggio di Gordon-Levitt sia malato è il suo taglio di capelli (si rasa preventivamente, prima di iniziare la chemio, dando vita con l'amico Kyle ad una scenetta raccapricciante) o il dolorino che lo induce a smettere di avere un rapporto con una ragazza disponibilissima; nel tempo restante assistiamo solo ad apatia da cliché e comportamenti irritanti, perfetti antidoti ad empatia e compatimento. Anche il “bro” Kyle compare in scena solo quando c'è da rubare qualche risata, con gag che potrebbero forse piacere allo spettatore medio americano, tra i pochi in grado di comprendere il potere catartico insito nella vandalizzazione del quadro orrendo di una ex fidanzata (scena enfatizzata in modo inconcepibile). Più in generale, tutti i personaggi sono in qualche modo indigesti, perché caratterizzati con l'accetta, senza sfumature, e interpretati da un gruppo di professionisti un po' troppo sopra le righe – vi segnaliamo il medico che ha in cura il ragazzo, una sorta di robot privo di tatto ed umanità, che non riesce a suscitare neanche lo sdegno che probabilmente cercavano gli autori. Il finale rappresenta solo la ciliegina sulla torta di un'opera largamente incompiuta: tarallucci e vino stavolta vanno di traverso più del solito, perché stonano in modo evidente con quella nota di umorismo “nero” che, unica, avrebbe potuto salvare baracca e burattini. Incolore