“Con un movimento impercettibile, i demoni più neri balzano in avanti e si impossessano di noi”, così rifletteva William Friedkin nel 2006 a proposito del suo Bug. La soglia (oltrepassata) dell’impercettibilità visiva e quella di un’emozione totalizzante e senza ritorno – fatta di allargamento della co(no)sc(i)enza, paura e desiderio, empatia liberata, dispersione degli schemi (di genere, di scrittura, di scienza ufficiale, di cinema mainstream) – è quel che resta immediatamente dopo la visione di 6 giorni sulla Terra, il secondo film (rigorosamente indipendente e low-budget) scritto e diretto da Varo Venturi, autore del corto Cosmos Hotel (Sacher d’oro nel 1997) e di Nazareno (Gran premio della giuria al festival europeo del cinema indipendente nel 2009).
Scavi nella coscienza collettiva del pianeta Terra: una sceneggiatura chirurgica e complessa, basata sugli anni di studi condotti sia dal dottor Corrado Malanga (ricercatore di chimica organica all’università di Pisa e consulente scientifico del film) sui rapimenti alieni, sia dallo stesso regista su temi come l’occultismo, l’aristocrazia nera, il controllo mentale. Due percorsi che non si sono ancora arresi – e probabilmente non lo faranno mai – ai boicottaggi, alle vessazioni e a tutte le forme di (tentata) sopraffazione del silenzio che operazioni coraggiose come queste (la storia si dipana mettendo in luce i collegamenti tra massonerie, servizi segreti, chiesa, mass media, corpi militari e lasciando emergere un concetto estremamente evoluto di moralità, a distanza siderale dalle categorie tradizionali e dualistiche che ci proiettano addosso e che noi proiettiamo sulla realtà) si ritrovano inevitabilmente a fronteggiare.
Due percorsi che si sono incrociati dando vita a una pellicola estrema, di piani sovrapposti: la disperazione delle personalità multiple con cui deve fare i conti Saturnia (Laura Glavan), la protagonista, “posseduta” da un’entità aliena; la ricerca scientifica che segue metodi non “tradizionali”, come l’ipnosi regressiva e la programmazione neurolinguistica; la guerra delle razze, il conflitto interno, la riflessione sulla necessità e il significato dei rituali; entità e codici (nostri? O di chi?) nascosti, da decifrare. Una pellicola che non lascia scampo né scelta allo spettatore che, come in Nazareno (che, con un cast di attori non professionisti, strappava i singoli alla propria ricerca di infinito per immergerli, come pedine consapevoli, in un altro “intrigo” mondiale e invisibile), viene letteralmente tirato dentro la storia, i luoghi familiari e celati di Roma, fin dentro il respiro dei protagonisti (tra cui Massimo Poggio, Nazzareno Bomba, Ludovico Fremont, Marina Kazankova, Pier Giorgio Bellocchio).
Realismo post-digitale: una regia temeraria, forsennata e senza respiro nelle scene d’azione (come l’inseguimento nelle strade della capitale), più che penetrante nello studio delle facce e delle emozioni, del flusso cognitivo che ci attraversa costantemente la testa e il corpo, sospesa solo il tempo di fare un respiro più largo sulla nostra condizione umana, attraversando un portico; regia che sublima ogni elemento concettuale in sangue, che parla contemporaneamente alla mente e alle viscere, che come in un miracolo tira fuori la verità da ciascun attore/personaggio. Davvero difficile incasellare un film come questo, unico in Italia e in Europa, in un genere o in un linguaggio. Come in Nazareno, la realtà e il farsi della pellicola si compenetrano magicamente, talentuosamente. Il confine tra il mondo e la nostra percezione è – finalmente – polverizzato.
Annarita Guidi