Siamo entrati in una nuova era. L'era della tv digitale, con la moltiplicazione dei canali e la frammentazione dell'audience. L'era delle tv "interconnesse", che permettono ai produttori di hardware di accordarsi con i giganti del Web, YouTube in testa, per offrire un'alternativa alla tv dei broadcaster. L'era del consumo "personalizzato" di un contenuto - in particolare da parte delle giovani generazioni - sganciato dal palinsesto: MySky ne è il modello sul versante dei broadcaster, Netflix è l'offerta nordamericana in streaming sulla Rete che si diffonde nel mondo; poi c'è la fruizione illegale, sempre e comunque personalizzata. L'era della tv ad altissima definizione (Dvb-t2, 4k, Ultra Definition), che favorisce e premia sia i dettagli sia le riprese panoramiche.
Il Web impone modalità e linguaggi alla tv: la condivisione dei contenuti, il "like" o "dislike" su ciascuno di essi, la pubblicità venduta quasi in tempo reale al miglior offerente, il profilo di ciascuno di noi, utenti e cittadini, racchiuso in server inarrivabili. In questo scenario "la tv generalista soccombe - commenta Enrico Menduni, autore di numerosi libri sulla storia della radio e della tv, docente di culture e formati della televisione all'Università di Roma Tre - perché perde la primogenitura, quando la fonte del contenuto può essere scelta dall'utente. La televisione, però, se capisce le nuove condizioni, può sopravvivere dignitosamente".
La velocità dei cambiamenti, imposti dalle tecnologie e dalla Rete, impone un totale ripensamento delle strategie aziendali e di quelli di governance politica del sistema televisivo e, al suo interno, della concessionaria di servizio pubblico. Ancora oggi, la politica italiana pensa al "chi" e non al "come" quando discute di televisione e di Rai. "Chi" sarà il nuovo direttore generale, "chi" il nuovo direttore del Tg1 e così via, dalla riforma del 1975 in poi (riforma che ha anche alcuni meriti). Nel 2016 scade la convenzione Stato-Rai. Non si potrà attuarne un tacito rinnovo a livello amministrativo. Dovrà decidere il Parlamento. Serve ancora un servizio pubblico? Se la risposta è sì, serve un concessionario unico, ovviamente multipiattaforma? O il canone potrebbe finanziare una pluralità di soggetti, visto che l'emittenza locale già riceve finanziamenti pubblici? Bisogna discutere "come" si vuole rendere le regole adatte a un sistema con una Rete sempre più globale, ma dai contenuti a maggioranza locali (ovvero nazionali). "Come" avere un servizio pubblico che arricchisca le pluralità sociali e culturali. "Come" tagliare il cordone ombelicale con i partiti, quello che ha ridotto drasticamente la legittimazione della Rai e della sua informazione - e del canone - agli occhi dei cittadini negli ultimi venti anni. "Come" avere una nuova Rai, in grado di essere partner alla pari, e non dominus, dei produttori indipendenti di audiovisivo e di cultura, al di là delle quote imposte per legge. Una nuova Rai che non potrà avere il Governo per azionista, tra l'altro. Il nostro sistema televisivo - e la relativa regolamentazione - hanno impoverito, negli anni del duopolio, i produttori di audiovisivo e di cultura, privandoli anzitutto dei loro diritti nel tempo e sulle diverse piattaforme.
Le compagnie OTT, le Over-the-top television, stanno entrando alla grande nella produzione di canali e di contenuti televisivi mentre i social network sono un'appendice indispensabile, a volte scomoda, a volte conformista, nella ideazione e nella realizzazione dei formati televisivi. Gli Stati reagiscono in modo differente a questa "invasione": chi trattando con gli OTT, chi ampliando la regolamentazione. Luigi Barzini su La Stampa del 5 gennaio 1954 scriveva: "Tra breve, senza dubbio, l'apparecchio sarà letteralmente dovunque (...) L'Italia sarà, in un certo senso, ridotta a un'immensa piazza (...) dove ci guarderemo tutti in faccia. Praticamente la vita culturale sarà nelle mani di pochi uomini". Dopo sessant'anni la missione è quella di far diventare democratica e concorrenziale quella piazza. A partire dal servizio pubblico.
Marco Meleper "Il Sole 24 Ore"