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64. Festival di Berlino: “Black Coal, Thin Ice” di Yi’nan Diao (Orso d’Oro)

Creato il 22 febbraio 2014 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

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Anno: 2014

Durata: n. d.

Genere: Drammatico

Nazionalità: Cina

Regia: Yi’nan Diao

L’Orso d’Oro è stato annunciato nel disappunto generale. Probabilmente non è stato un Concorso dall’imbarazzo della scelta, come del resto accade spesso al Festival di Berlino, le cui punte di diamante sono da scoprire altrove nelle categorie collaterali. Definita sottotono, la 64. Berlinale ha avuto lustri, lustrini e lustrate come ogni festival che si rispetti, e come tale anche le nomine del cuore di ciascuno, più o meno condivise e puntualmente disattese.

Black Coal, Thin Ice  di Yi’nan Diao, Orso d’Oro 2014, è un noir classico ambientato nella Cina contemporanea. Non manca niente a questa detective story nera: il poliziotto decaduto impegnato ora in indagini private, ossia l’uomo onesto maltrattato e incattivito dalla vita che l’ha reso un reietto, la ricerca personale di un riscatto e di giustizia, la femme fatale nascosta dietro un angelico volto e l’umile posizione sociale, il crimine che l’ex poliziotto deve risolvere in solitaria affrontando i fantasmi del passato.

Nel 1999 corpi lacerati vengono ritrovati nelle cave di carbone, dopo cinque anni delitti simili si ripresentano all’attenzione dell’ex poliziotto. Le indagini private lo portano a una lavanderia dove lavora una ragazza che avrà un ruolo chiave nella cattura del killer. Inutile dire che, tra dolcezza e possesso, la relazione tra i due si spingerà oltre la sola collaborazione investigativa.

Il carbone nero e il ghiaccio sottile evocati nel titolo sono la materia del crimine nella cui consistenza si definisce il tema delittuoso e l’essenza del genere che questo film rispetta: nero, sporco è l’omicidio, che tuttavia trova la sua strada anche nella purezza del ghiaccio, affilato e tagliente. Il carbone e il ghiaccio, sporco e grezzo il primo, sottile ed etereo il secondo, sono la metafora del genere dominato dalla brutalità rozza del delitto e dalla salvezza inafferrabile, ma comunque agognata, affidata all’amore. L’ambiente ostile costringe i personaggi a muoversi in uno spazio malato, caotico, violento collocato geograficamente nel nord della Cina, un luogo geografico per niente rassicurante. La Cina emerge nelle angustie di un regista la cui certezza – per sé e per i suoi personaggi – sembra essere la morte che incombe e che non pacifica, che giunge anzi abbattendosi con ferocia e impietosa sulle sue miserabili vittime. La desolazione dell’essere umano, la sua solitudine senza soluzione, l’invincibilità dell’ingiustizia e del disordine, della cattiveria e dell’assurdità, la prevaricazione e il trionfo del male dominano il mondo, soprattutto quello di Yi’nan Diao che non intravede spiragli di luce nell’oscurità contemporanea popolata da esseri oramai abbrutiti. Peccato suoni tutto molto più interessante nero su bianco che sul grande schermo.

Francesca Vantaggiato


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