Anno: 2014
Durata: 156′
Genere: Documentario
Nazionalità: Germania, Danimarca, Austria, Norvegia
Regia: Wim Wenders, Michael Glawogger, Michael Madsen, Robert Redford, Margreth Olin, Karim Ainouz
Se l’architettura potesse parlare, raccontarsi, come lo farebbe? Che intuizione avrebbe di se stessa nell’interazione tra spirito e materia, tra esterno ed interno, tra corpi, azioni, pensieri, sentimenti, che ospita-contiene? Questa la domanda generatrice del progetto firmato da Wim Wenders, Michael Glawogger, Michael Madsen, Robert Redford, Margreth Olin, Karim Ainouz presentato nella Berlinale Special. Il Berlin Philharmonic, la National Library of Russia, la Halden Prision, il Salk institute, l’Oslo Opera House, il Centre Pompidou: sei icone dell’architettura moderna si raccontano, aprendosi alla nostra percezione nella prospettiva tridimensionale di occhio e narrazione, nel taglio personale con cui ciascun regista ha voluto introdurle e attraversarle. Sorprese ne arrivano. Non da Wim Wenders, al cui approccio di senso del 3D siamo ormai abituati. Qui anzi, la portata penetrativa si avverte di meno: nel Berlin Philharmonic, l’occhio tridimensionale viene ‘tradito’ da una narrazione troppo didascalica, dove il 3D perde tutta la potenza disvelatrice, specie nella verità culturale e storica del Berlin Philharmonic, anche simbolo di un isolamento (con l’erezione del muro) di Postdamer Platz terra di nessuno.
Michael Glawogger si approccia per la prima volta al tridimensionale nel personificare la National Library of Russia nei suoi abitanti-identificatori per eccellenza, i libri. Dentro un labirintico e misterioso scrigno fuori dal tempo, custodito da spiriti femminili che vi penetrano come in una grande casa di cui conoscono ogni segreto. La macchina da presa lambisce ogni curva e ogni altura di un vero e proprio regno non digitalizzato, immersi in un silenzio irreale in cui è il libro a parlarci, visivamente, nei dettagli che il 3D assorbe, anche nel vitalizzare la pagina della creazione del mondo da una vecchia bibbia. L’empatica e riuscita interazione tra architettura e psicologia, il racconto visivo di un luogo che pareva confinato solo nell’immaginazione fino ad oggi, per chi lo scopre per la prima volta: la Halden Prison in Norvegia.
Michael Madsen filma la rappresentazione architettonica di un tentativo di redenzione, di come la detenzione possa abbandonare forme repressive fine a se stesse, divenendo un luogo nel quale chi ha subito più degli altri l’esistenza possa avere il tempo e il posto per ‘ritrovarsi’. La free floting camera esplora un luogo oscillante tra l’asetticità propria di uno spazio detentivo ed un’estetica purificante. Forma e contenuto teso ad una rinascita, sia nell’intimità del privato che nella socialità dell’apprendimento. Non ci sono sbarre alle finestre, i colori tenui, la non promiscuità del dividere una stanza da letto che sembra una comune camera di una comune casa, i graffiti street art autoironici… I detenuti, eremiti, in un confino teso a nutrirli più che a privarli ulteriormente di dignità. Il confino si fa sentire, la stessa architettura lo rimarca nel cemento che sovrasta e delimita una natura penetrante comunque, anzi volutamente. Nella ‘camera di sfogo’ imbrattata di escrementi da chi esterna il suo disagio.
Altra sorpresa, pur se appesantita da un footage didascalico, il Salk Institute rivelatoci da Robert Redford, frutto di una collaborazione unica tra due dei pensatori più originali del XX secolo. Nel 1959, il famoso virologo Jonas Salk, padre del vaccino antipolio, chiese all’architetto Louis Kahn di progettare il suo istituto di ricerca biologico ideale: un ‘monastero’ sulla costa californiana, che si affaccia all’oceano. Terra, cielo, mare, paiono staccarsi dal resto del mondo e attaccarsi alla scogliera nei suoi elementi, per come lo spazio architettonico viene proporzionato, ristretto ed allargato… Una stilizzazione-rigore che è nel contempo abbraccio a quel mondo materico il cui studio alimenta le domande sulla vita che gli studiosi si pongono. La compenetrazione piena tra territorio, arte e quotidianità, la avvertiamo nello splendido fiordo che è l’Opera House di Oslo. Margreth Olin ce lo rende attraverso lo scambio interno-esterno, sugellato da un’architettura da vaso comunicante nel vetro che unisce la vita degli artisti che lo abitano, alla gente che lo accosta, che popola il bianco pavimento esterno, passeggiando, sostandovi, correndo, leggendo…e dentro la danza, il canto, la recitazione… Un’unione tra arte e vita che si nutre reciprocamente.
Il meno riuscito, il ritratto che Karim Ainouz dà del Centro Pompidou. Il suo occhio non riesce a renderne l’essenza di fucina creativa da lui stesso ambita. Lo accosta dall’esterno troppo timidamente, così come vi penetra come qualsiasi visitatore farebbe, semplicemente testimoniando un altro da se’, non un’identità. Le quasi tre ore di lunghezza di Cathedrals of Culture ‘induriscono’ un lavoro complessivo degno di nota nel tentativo di rovesciare il punto di vista attraverso il quale l’architettura si mostra. Un ‘dal di dentro’ dal quale il 3D può estrarre ancora frutti preziosi, abbandonando il didascalismo narrativo di voci fuori campo troppo staccate da una penetrazione tridimensionale.
Maria Cera