Anno: 2013
Durata: 90′
Genere: Drammatico
Nazionalità: Danimarca
Regia: Nicolas Winding Refn
Dopo La grande bellezza di Sorrentino, unico italiano a gareggiare per aggiudicarsi la Palma d’oro 2013, è finalmente arrivato il momento di un’altra grande attesa del festival di Cannes, Only God Forgives del danese Nicolas Winding Refn. A due anni dal Premio Miglior Regia assegnato a Drive, Refn torna sulla croisette con Ryan Gosling protagonista silenzioso del film d’ambientazione thailandese e grande assenza sul red carpet a causa delle riprese del suo film esordio alla regia How to catch a Monster. Only God Forgives ha deluso.
Refn ci propone la storia di Julian (un Ryan Gosling monocromatico replica di se stesso in Drive), scappato dagli States dopo aver ucciso il padre e approdato in Thailandia, a Bangkok, dove gestisce un club di boxe come copertura ai suoi traffici di droga. Suo fratello Billy viene giustiziato dopo aver assassinato brutalmente una prostituta, e la madre (un’eccezionale Kristin Scott Thomas sebbene lontana dai ruoli consueti) accorre dall’America rabbiosa e assetata di vendetta. La morte del figlio prediletto deve essere vendicata da Julian, il quale però dovrà confrontarsi con Chang (Vithaya Pansringarm), un personaggio misterioso, un ex poliziotto seguito da una stuolo di uomini in uniforme, considerato un esecutore divino della giustizia, ‘Dio’.
Come in Valhalla Rising e Drive, l’estetica della violenza (splatter) e l’enigmatico silenzio sono la struttura portante attorno cui edificare le circostanze, definendosi come linguaggio prediletto. La vendetta, leitmotiv della storia, esplode/implode nei racconti neri di Refn, infiltrandosi nel confronto mistico di una dualità titanica. Predomina il rosso-sangue nella tonalità dei luoghi bui e notturni e nella definizione dell’atmosfera in cui si consuma il dramma per immagini di una lotta più spirituale che fisica tra Julian e ‘Dio’. Refn sceglie la chiave del silenzio per (non) comunicare la tensione emotiva di Julian, un uomo dalla forza espressiva paralizzata, capace di grandi atti di violenza, cresciuto al fianco di una madre detestabile e tiranna in un ambiente straniante. Nella negazione della parola e del tatto – della concessione del piacere – si consuma il rapporto di Julian con la sua ‘accompagnatrice’, e ancora nell’assenza della reazione verbale e gestuale quello con una madre-Medea generosa nell’impartire ordini e nell’annientare il figlio meno amato e parca nell’affetto. Risente di un’influenza mitologia Only God Forgives, dove figure archetipiche si cercano, si respingono, entrano in conflitto e soprattutto si muovono – ignorando la via per raggiungere la meta, e forse la stessa – verso la risoluzione di sé e della propria rabbia. Chang-God, protettore old-fashioned della sua gente, è il giustiziere con la spada che canta per i suoi in un bar raccontando storie umane universali ed eterne. Julian è l’anti-eroe alla ricerca ‘di quello che non è’, il lupo solitario in corsa che chiude il suo arco evolutivo nell’atto cruento e liberatorio scagliato contro la madre.
Eppure solleva non poche perplessità il lavoro in sottrazione del regista che firmò quel capolavoro di Bronson. L’azzeramento dei dialoghi, la scarnificazione dei personaggi, la riduzione di ogni collisione alla sola immagine fanno di Only God Forgives un’opera criptica e sospesa nell’astrazione di una poeticità feroce fine a se stessa. Bangkok, città dove spiritualità e realtà dialogano e si mescolano, è l’anima del film, l’emblema della raffigurazione tanto cerebrale quanto carnale dello scontro. L’oscuro viaggio intrapreso da Julian nel tentativo di afferrare la sua religione, il suo Dio, per sfidarlo in duello e andare oltre se stesso alla scoperta di un io sconosciuto è manchevole di radici e fascino.
Francesca Vantaggiato