Southpaw
di Antoine Fuqua
con Jake Gyllenhall, Rachel MacAdams, Forest Whitaker
Usa, 2015
genere, drammatico
durata, 122'
Non è più novità annoverare Antoine Fuqua tra
quegli autori di cui si può pensare tutto e il contrario di tutto. A
favore del regista americano gioca l'effetto boomerang
provocato dal successo di un film come "Training Day", entrato nella
storia del cinema contemporaneo per aver consentito a Denzel Washington
di vincere un Oscar (come miglior protagonista) che, a quasi 40 anni
dalla storica vittoria di Sidney Poitier (I gigli nel campo, 1963)
tornava a premiare un attore di colore. Forte di quel credito e,
diciamolo pure, di un risultato finale che si distingueva dalle altre
pellicole della sua categoria per l'energia della messinscena e la
sfrontatezza dei contenuti, Fuqua non è riuscito a confermare le
credibiltà conquistata con il film in questione, infilandosi in una
serie di progetti di dubbia qualità, e viziati, prima ancora di iniziare
a girare, dalla mancanza di una scrittura in grado di giustificarne la
produzione. Così, la carenza che, in parte, era stata la causa della
parziale riuscita di "Equalizer", si ripresenta ancora più forte in un
film come Southpaw, obbligato, indipendentemente dalla sua validità, a
svincolarsi dal pregiudizio che lo voleva come l'ennesimo epigono di
"Rocky", che il film di Fuqua ricorda, sia nel mestiere del protagonista
Bobby Hope, anch'egli boxer come già lo era stato il personaggio
interpretato da Sylvester Stallone; sia nella sostanza nell'impianto
narrativo che, alla vicenda di una rinascita sportiva coronata dalla
vittoria del titolo mondiale, aggiungeva un percorso di emancipazione
personale ottenuta appunto, attraverso il sacrificio degli allenamenti
necessari per il raggiungimento del primato. Nella sostanza "Southpaw"
fa poco o niente per screditare le accuse che gli vengono avanzate
perché, dopo un inizio incoraggiante, che può contare sulla presenza di
Rachel McAdams, a rappresentare la variabile femminile necessaria a
contrastare la massiccia dose di muscoli e testosterone già in dote alla
storia, il film di Fuqua segue la falsariga del canovaccio del modello
di riferimento. E quindi, si divide equamente tra i sensi di colpa di
Hope, che si sente responsabile della morte della moglie e che rischia
di perdere la figlia a causa delle sue molte intemperanze, e le fasi di
avvicinamento all'incontro decisivo che, come sempre accade, costituirà
il viatico per il definitivo riscatto del nostro campione.
Se
a un regista come Fuqua non si poteva chiedere di cambiare le sorti di
un simile copione, certamente il suo ingaggio era stato determinato
dalla possibilità dell'autore di imprimere alla storia quelle
caratteristiche di spettacolo e di energia di cui abbiamo accennato
poc'anzi. E invece, non solo il regista si appiattisce in un
allestimento di routine, con le scene di box costruite senza nessuna
inventiva e sulla falsariga di un già visto da prodotto televisivo (il
totale dell'arena straripante seguita dallo stacco sui volti dei pugili
sistematicamente utilizzato per introdurre i vari combattimenti), ma
estende tale trattamento alla gestione degli attori, che dopo l'uscita
di scena della MacAdams - a conferma della tendenza misogena del cinema
di Fuqua - risulta deficitaria, soprattutto per quanto riguarda la resa
di Jake Gyllenhall, muscolato a dovere ma piuttosto impacciato quando si
tratta di rendere l'adrenalina del combattimeno; con quello che ne
consegue in termini di enfasi facciale e sofferenze corporali, davvero
troppo esagerate anche per un viaggio di espiazione come quello compiuto
da Hope. Il coinvolgimnento viene meno e, alla fine, si rimane con in
mano un pugno di mosche e con la sensazione di un regista che non riesce
ancora a ritrovarsi.
(pubblicato su ondacinema.it/speciale 68 festival di Locarno)