7 Domande a… ‘l poeta Davide Castiglione

Creato il 01 novembre 2011 da Stroszek85 @stroszek85

 

Ho conosciuto Davide in internet e subito sono rimasto colpito dalla potenza della sua poesia che personalmente ho sempre legato al concetto di “precisione“, come anche il suo modo di porsi criticamente al cospetto di testi scritti da altri. Si tratta di un poeta giovane (precisamente della mia stessa età) ed è per questa serie di motivi che ho deciso di chiedergli un’intervista (che lo stesso mi ha gentilmente rilasciato). Davide ha pubblicato recentemente la sua prima fatica poetica “Per ogni frazione“; vista la sua disponibilità mi sento un pò in obbligo di fargli un pò di pubblicità…

Vi lascio ora all’intervista!


  1. In cinque righe: che cos’è per te la poesia?

Il “me” studioso risponderebbe, un po’ tautologicamente, che la poesia è il genere ritenuto tale nei secoli e nei vari paesi. Ma per il “me” intimo è una presenza irrinunciabile (seppure discreta), con cui a volte ho un rapporto conflittuale. Può essere vertigine e commozione – certe poesie altrui –, un segno della propria identità e del proprio essere, una forma che ti rispecchi. Ma parlare di poesia in senso astratto, ontologico, mi imbarazza: preferirei valutare caso per caso, poesia per poesia, situazione per situazione.

  1. Cos’è oggi la poesia?

A livello di produzione (dei poeti), oggi forse più di ieri è spesso un manufatto dall’artigianato diligente ma anonimo, che ha perso la capacità di generare nuove prospettive su sé stessa e sul mondo. A livello di ricezione e funzione, è quasi inesistente: nella nostra cultura si omaggia astrattamente la poesia, la si insegna (tra l’altro con metodi antiquati e fermandosi a Montale), si imbandiscono concorsi e festival dei quali spesso diviene il pretesto. Ma non è parte integrante della vita della maggior parte delle persone, e non per colpa loro: il cambiamento della poesia deve venire prima dalla società, e delle politiche che la sostengono. Per ora, nel nostro piccolo, si tratta di dare a se stessi e agli altri “strumenti umani” (rubo l’espressione da uno straordinario libro di Sereni) che ci rendano più completi e in grado di ricevere forme d’arte anche non immediate.

  1. Che scopi ha la poesia di oggi e che scopi invece dovrebbe avere?

Penso che la maggior parte dei poeti autentici aspiri a lasciare qualcosa tramite la sua poesia, sia pure a un ristretto ricettacolo di lettori; ma spesso si scrive anzitutto per se stessi, per una necessità propria. Non credo che ci sia niente di male in questo, a patto di fare di questa necessità un mezzo per arrivare agli altri. Lo scopo più alto che potrebbe avere la poesia è quello di contribuire a una realizzazione piena degli individui, senza tuttavia diritti di precedenza verso altre arti, o altre attività: c’è senz’altro più dignità a fare bene un lavoro manuale che a scrivere male una poesia. Questo scopo, tuttavia, è per ora raggiunto da pochi ricettivi, e così continuerà ad essere almeno finché i modelli e la costituzione profonda della nostra società non cambieranno.

  1. Esiste un obbiettivo che la poesia ha avuto sempre e sempre avrà, al di là degli specifici momenti storici?

Più che un obbiettivo, credo che da sempre la poesia abbia avuto la necessità di interrogare le esperienze umane basilari, dall’amore alla morte alla ricerca dell’assoluto. La grande poesia è spesso associata ai grandi interrogativi che pone. Eppure credo che anche quest’ultima definizione possa essere una distorsione romantica (nel senso storico del termine) della funzione poetica. Più modestamente, perso oggi qualsiasi residuo di autorità morale del poeta, penso che la poesia debba conservare comunque un’attitudine critica e conoscitiva, non consolante o compiacente.

  1. Quali sono i tuoi segreti? Perlomeno quali sono le linee che sempre e comunque segui nella composizione di una poesia?

Nel mio fare poetico non ci sono “segreti” nel senso di qualcosa di prezioso da custodire, pena lo svilimento della mia poesia o l’adozione del mio metodo da parte di altri! Penso che ognuno abbia un rapporto personale con la propria scrittura. Nel mio caso, solitamente è il concorrere di più concause: un’intuizione linguistica (nello specifico, spesso sintattica), un particolare del mondo esterno che mi colpisce, un discorso o un contenuto che mi stanno a cuore – tutti questi fattori si condensano nello scrivere, e lo scrivere a sua volta nasce da un impulso difficilmente verificabile, ma generalmente associabile a uno stato d’animo più malinconico, pensoso o anche lucido della norma. Lo stile di ogni poesia risponde alla sua origine, al suo scopo e ai miei lenti “spostamenti” di poetica, suggeriti dalla vita pratica e dalle nuove letture; in ogni caso, nello scrivere cerco di fare in modo che ogni elemento della poesia sia funzionale al resto, mai puramente ornamentale; cerco di ipersemantizzare il mio discorso, di renderlo cospicuo ad ogni passo, il che in effetti risulta spesso in una certa difficoltà di interpretazione da parte di chi mi legge.

  1. Che impressione hai dei poeti di oggi?

Se per poeti si intende le singole persone, da come appaiono in pubblico o sulla rete, il discorso non può essere generalizzato: accanto a poeti “arrivisti” e smaniosi di mostrarsi ce ne sono di discreti, persone validissime con le quali è possibile avere un dialogo umano “a tu per tu”, senza riverenze. Una cosa che mi colpisce di molti poeti miei coetanei o appena più grandi, è l’intenso attivismo culturale, che va senz’altro lodato, e la consapevolezza del panorama poetico, il confrontarsi con poeti più maturi all’anagrafe, ma non sempre nei versi. Se invece per poeti si intende, metonimicamente, la loro opera, in parte ho già risposto nella seconda domanda di questa intervista: tranne poche eccezioni, (o forse, più che poche, in ombra), mi sembra che la maggior parte di loro abbia tramutato la troppa consapevolezza estetica e storica in un equilibrio da “buonsenso” che porta a una drastica riduzione del rischio. Rischio non solo linguistico, ma anche di posizione assunta nei confronti del mondo: la cronaca un po’ impotente, la latente tendenza ad annullarsi. Con questo però non condivido affatto, all’opposto, le posizioni facilmente vitaliste o nichiliste, che spesso risultano in vuota retorica. Però manca la grandezza di Montale che sa farsi emblema di un’epoca, la grandezza vertiginosa di Zanzotto o (forse) un esordio paragonabile a quello di De Angelis trenta e più anni fa, e manca una critica che sappia denunciare e spiegare tutto ciò. È chiaro che in questo panorama sono coinvolto anch’io, e posso essere caduto più volte nelle stesse cose che denuncio.

  1. Il tuo poeta preferito: chi scegli? Hai a disposizione due scelte: un poeta contemporaneo e uno del passato. Due aggettivi per ognuno per sintetizzare le motivazioni, e due righe per ogni aggettivo per esplicitare meglio cosa intendi.

Contemporaneo: Milo De Angelis. Potente, necessario. Potente per il linguaggio oltranzista nella creazione di scenari surreali che infrangono le nostre ricostruzioni logiche o sensoriali; necessario perché non c’è, in quest’oltranzismo, nessuna traccia di arbitrarietà ma un investimento totale del soggetto poetico. Escludo però da questo discorso i suoi due ultimi libri, soprattutto l’ultimo, quasi manierato, di molto inferiore ai precedenti.

Del passato: Sereni. Umano, storico. Umano perché mi è difficile non commuovermi nel rileggerlo, e perché non è mai venuto meno a una pratica etica della poesia; storico perché ha incarnato l’esclusione dalla storia con sofferenza e fedeltà, anziché con l’aristocratico sprezzo dell’ultimo Montale.


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