Credo, per lo più, che Mourinho sia stato superato dal mito Real Madrid, i cui giocatori sono di per sé star singole e si piegano difficilmente alla logica di squadra che M. traduce in un'unità di intenti contro il resto del mondo. Il Real Madrid non va motivato, non va trasformato in una squadra - sarebbe una mission impossible. Va, piuttosto, allenato. E Mourinho non è un maestro in questo.
Qui i sette motivi di T. Pellizzari:
2) Già, perché l'altro dettaglio (nemmeno troppo trascurabile, poi) da tenere presente è che il Real s'imbatte per il secondo anno consecutivo in una squadra tedesca proprio nell'arco di tempo in cui diventa evidente a tutti il cambio al vertice del calcio mondiale. È probabile che la vittoria all'Europeo 2012 segni il punto più alto del dominio spagnolo sul mondo. Dopo il 4-0 sull'Italia a Kiev, la fenomenale generazione del Barcellona e degli spagnoli del Real inizia non il declino, ma quanto meno a muovere i primi passi verso la parabola discendente. Che sarà lunga, visto il livello di partenza. Ma inevitabile, data l'età (anagrafica e agonistica) di alcuni giocatori, mescolata all'inevitabile appagamento dopo tale serie di trionfi. Le due semifinali di Champions hanno parlato chiarissimo: nella loro totale diversità, le due eccellenze tedesche sono apparse di un'altra categoria rispetto alle due squadre fino a quel momento giudicate le migliori del mondo.
3) Ma se il Real non ha vinto la sua decima Champions, non è solo per questi aspetti di sistema, quindi indipendenti dalla volontà e dalle azioni di Mourinho. Per quanto, l'anno scorso e a tratti quest'anno, i blancos abbiano espresso momenti straordinari di calcio (probabilmente i migliori di tutte le sue squadre), troppo spesso hanno mancato di dare l'impressione di perfezione tattica e imbattibilità agonistica che Chelsea e Inter hanno più volte fornito. Insomma, solo raramente il Real è sembrata un monolite pronto a morire per il suo allenatore.
4) La qual cosa porta al punto fondamentale: è evidente che Mourinho non è riuscito a ricreare nello spogliatoio madrileno la stessa granitica compattezza di Oporto, Londra e Milano. Le ragioni possono essere diverse: il meccanismo «noi-piccoli-e-deboli-contro-i-forti» non era di certo applicabile al Real, Mourinho ci ha provato lo stesso. Fallendo. Un po' perché il Real è il simbolo stesso del potere nel calcio. Un po' perché negli anni madrileni di Mou il calcio spagnolo nel suo complesso era il simbolo della grandeur. Una grandezza raggiunta attraverso un tipo di gioco trasformato retoricamente in un modo di essere che per un Paese intero è diventato un vanto. Né l'uno né l'altro erano marchi di fabbrica di Mourinho. Che agli occhi degli spagnoli ha dunque commesso un peccato imperdonabile: non volersi conformare a quel modo.
5) Il punto è che forse Mourinho non ha potuto farlo. Detto in altri termini, l'esperienza spagnola ha per la prima volta messo a nudo il vero grande limite del tecnico portoghese: l'incapacità di ricorrere a un «piano B» se quello originale non funziona. Una volta verificato che la sua strategia finora vincente non dava gli esiti voluti, Mourinho non ha (finora) saputo inventarne una diversa.
7) Volendo, anche il suo ritorno al Chelsea (se davvero sarà così) è un segno non piccolo del cambiamento di Mourinho. L'uomo delle sfide impossibili torna in un luogo conosciuto e sicuro, dove sa di essere addirittura amato. Una scelta dettata anche da ragioni contingenti (tipo Ferguson che non molla la panchina dello United), ma che è indicativa anche di qualcos'altro. A 50 anni, Mourinho è un allenatore di cui ormai si sanno le cose fondamentali: come gioca, e infatti hanno imparato a batterlo; come allena, e infatti alcuni allievi come Klopp sono riusciti a superare il maestro; come gestisce un ambiente, e infatti tra le poche squadre che potrebbero permetterselo economicamente, c'è stata più di un'esitazione. Abbastanza per stimolare l'orgoglio dello Special. Ma, com'è noto, non è quello l'aspetto del suo carattere che ha bisogno di qualche ritocco.