Papà, messa da parte la formalità del lavoro d’ufficio, alla guida in maniche di camicia - i bottoni del colletto aperti, i suoi baffi curati e neri -, mamma accanto (i capelli raccolti in un foulard che le avvolgeva anche parte del collo, ma il vento che entrava dal tetto con la cappotta ripiegata le spostava lo stesso qualche ciocca davanti al viso e allora con un movimento cercava di contenerle). Ogni tanto si girava un attimo a sorriderci, a volte la sua mano si fermava su quella di papà appoggiata sulla leva del cambio. Le dita intrecciate.Io e mio fratello sul sedile posteriore.La guida tranquilla, i paesaggi scorrevano non troppo veloci, lasciandoci il tempo di ammirarli da dietro il vetro del finestrino, e intanto ci addentravamo sempre di più lasciando il mare alle nostre spalle, fino a che non scompariva del tutto - ma a giocare con la sabbia o a fare il bagno potevamo andarci quando volevamo, a me non dispiaceva (lo avremmo rivisto in lontananza dall’alto del belvedere del paese, nelle giornate particolarmente limpide).Percorrendo strade poco trafficate ci fermavamo a mangiare le mandorle, non che in città non ce ne fossero, ma raccolte direttamente dagli alberi che crescevano nei campi ai bordi avevano un altro sapore. Un rituale, segno che ormai mancava poco, e ne approfittavamo per sgranchirci e rinfrescarci un po’. Io ne ero particolarmente ghiotto, e anche mio fratello. Lo so perché quello era uno dei pochi momenti del viaggio in cui si svegliava. Non lo disturbavano nemmeno le grattate del cambio quando papà scalava per affrontare i tornanti, nemmeno il clacson quando entravamo nel silenzioso centro abitato. “Se mi prometti di non superare i 70 Km/h allora va bene”, disse mio padre non senza preoccupazione una sera.Ero fresco di diploma e di patente, insistetti tanto per potere avere la macchina e andare da solo con il mio migliore amico - con lui il viaggio sarebbe stato diverso. “Però tagliati i capelli” aggiunse mentre guardava di sottecchi mia madre.Scattai dalla sedia e, ancora incredulo, stampai un bacio sulla guancia della mamma. Immaginavo che il merito dovesse essere suo.Arrivare al paesello. Il rombo del motore tra i vicoli che subito svanisce una volta passati. I contadini curvi sui pomodori, le donne che stendono i panni, i bambini che corrono dietro un pallone. Suonare qualche colpetto attira la loro attenzione. Qualcuno si porta la mano alla fronte per oscurare un po’ il riverbero del sole e vederci meglio, altri la agitano in segno di saluto. Bello essere per un attimo il protagonista.
Ma quanti anni saranno ormai. Papà l’ha tenuta proprio bene. C’è perfino la benzina. Chissà se tutto è come allora.
Il mare è lontano e la cappotta ripiegata sul tetto. Ai lati della strada guard-rail e sparuti ciuffi di ginestre sui muretti di cemento. Le mandorle le compriamo da un contadino che ne ha un cesto pieno.Un centro commerciale al posto dell’abbeveratoio dove le donne andavano a lavarsi i capelli con l’acqua della sorgente. Poi la rocca e il suo castello. Più in basso la borgata è una distesa di tetti spioventi. Il corso principale lastricato di rocce bianche e l’oratorio dove i pomeriggi aiutavi gli scolari a fare i compiti. La piazza e le linee essenziali della chiesa e il caffè con i tavolini fuori. Quando ti ho incontrato la prima volta eri seduta lì.
Michele Reale
Racconto pubblicato su Quattropiccoleruote