(No, non siamo ancora tornati operativi al cento per cento, però volevamo cominciare a scaldare i motori per settembre provando a srotolare una manciata di pellicole che abbiamo visto - o rivisto - durante questa torrida e crudele estate).1) Giovani si diventa è un intrigante film sull’età adulta e sulla diversa percezione del tempo che ogni generazione si porta appresso. Una pellicola dai molti momenti spassosi capace di far riflettere sull'intromissione dei social e sull'odierno concetto di esperienza che regolano le nostre vite ma anche sull’orizzontalità e sulla verticalità con cui impastiamo il nostro quotidiano. Ben Stiller e Naomi Watts sono una tipica coppia newyorkese che, alla soglia dei 40 inverni, fatica a trovare gli stessi stimoli che alimentavano la loro giovinezza. L'incontro con una coppia di neo-sposini ventenni (Amanda Seyfried e Adam Driver) darà lorò la scarica di adrenalina che stanno cercando, ma sarà anche l'occasione per capire che essere giovani non è soltanto una questione anagrafica. Il regista candidato all'Oscar Noah Baumbach mette a segno una commedia forse imperfetta ma notevole, che - almeno nella prima parte - evoca le atmosfere dei migliori film di Woody Allen regalandoci numerosi spunti interessanti sull'età che avanza. Peccato solo per un secondo tempo oggettivamente fiacco, con la caduta delle maschere molto poco convincente e uno Stiller costretto a reiterare all'infinito il proprio personaggio di nevrotico standard. Esaltante quando si ironizza sulle differenze tra le epoche (i quarantenni iper-tecnologici e sempre connessi per sembrare giovani e i ventenni innamorati dei vinili e dei taccuini moleskine perché fanno figo) il film sembra un po' sfiatato quando aggredisce il nodo centrale della storia, ovvero la focalizzazione del discorso sul valore intrinseco delle cose: siamo proprio sicuri che ogni canzone equivalga a un’altra, che i Goonies valga Quarto potere, che tutto ciò che è già stato scritto, composto, filmato etc., sia a nostra disposizione, senza prezzi da pagare o apprendistati da superare? La commedia non riesce nemmeno a formularla correttamente, questa domanda, ma balena taciuta nello spettatore e questo è in fondo già un buon risultato.2) Fantastic Four nella nuova, ennesima versione rivisitata lo aspettavamo con quel misto di curiosità perversa e certezza dello svacco. A dirla tutta non ci voleva granché per aspettarsi il flop che infatti in America è arrivato puntuale, anche perché oggettivamente, al netto di una prima parte dotata di qualche frisson scientifico (anche se infarcito di troppe tecno-bubole), la pellicola sbaglia decisamente l'approccio: quei quattro supertizi sullo schermo non sembrano proprio quelli creati da Kirby e Lee e tutte le dinamiche che hanno fatto grandi quei personaggi (gli scazzi tra Johnny e Ben, l'amore tra Reed e Sue) restano appena abbozzate, compresse in un mare di dialoghi che non c'entrano il bersaglio. Ogni potenziale - che pure si avverte, perché il regista Josh Trank non è un fesso - deraglia in un mare di semplificazioni e locations claustrofobiche (il film è quasi interamente ambientato nel laboratorio del Baxter Building). Dispiace, anche per il bel cast ordito, ma sembrava scritto già nell'annuncio di lavorazione, che questo film avrebbe preso questa terribile piega.
3) Night Moves ce lo eravamo perso tempo fa perché, semplicemente, non si può stare dietro a tutto. E mal ce ne incolse, poiché trattasi di un solido noir dell'anima che immortala con cognizione e abilità le paludi della mente che si celano dietro ogni idealismo estremo. I "movimenti notturni" del titolo sono riferiti al nome di una barchetta con cui un trio di scalcagnati ambientalisti radicali mettono a segno un attentato, ma è evidente che la regista Kelly Reichardt (avevamo già parlato di lei e del suo strano e toccante western) ammicchi ai moti che alimentano lo spirito dei tre personaggi che nel film si incontrano per mettere in atto la più grande protesta della loro vita: far esplodere una diga idroelettrica. Harmon è un ex marine, radicalizzato dal servizio prestato oltreoceano. Dena ha abbandonato il mondo dell’alta società, disgustata da quel consumismo in cui è nata. Infine Josh, figlio del ceto medio che lavora in una fattoria biologica, è un militante formatosi da solo e impegnato nella difesa della Terra con qualsiasi mezzo necessario. Lo spettatore assiste al momento in cui i tre eco-terroristi si incontrano, comprano 200 kg di fertilizzante con ammonio, organizzano le tappe dell'attentato e così via. Poi, quando calano le tenebre e la barca dev'essere condotta alla diga, si scivola man mano verso una tensione che è sottilissima eppure palpabile (interessanti le performance degli attori, con consueta prova superlativa per un Jesse Eisenberg controllato ma ormai a rischio tic).
4) di Wild avevamo letto tanto e perlopiù bene, a maggior ragione visto che stiamo parlando del più recente lavoro di Jean-Marc Vallée, cineasta che ci aveva favorevolmente colpito con Dallas Buyers Club; dobbiamo purtroppo constatare che invece trattasi di grande bluff e questo nonostante l'ottima prova di una Reese Witherspoon sempre più convincente e la sceneggiatura (addirittura!) di quel furbone di Nick Hornby. La storia, vera e con rimandi immediati a quella di Alex Supertramp (ma senza l'alone mitico di quest'ultimo) narra di una ragazza rimasta sola con il proprio fratello dopo la morte improvvisa della madre (dal padre i due si erano allontanati anni prima per eccesso di violenza) e la fine del proprio matrimonio. Persa nella dipendenza dall'eroina e ossessionata dal sesso, la protagonista decide di affrontare il Pacific Crest Trail a piedi, più di 1.600 Km in totale solitudine macinati in più di due mesi nel tentativo di rivedere il proprio approccio alla vita e determinata a superare con un'impresa che pare superiore alle sue forze il gap esistenziale in cui sembra essersi bloccata, ma alla pellicola manca il nerbo e l'identità per raccontare una vicenda siffatta, nonché una maniera personale di affrontare l'immersione totale nella wilderness. Perchè Vallée conduce la propria protagonista più nelle stagioni che nei luoghi, sorvola le particolarità degli ambienti per guardare sempre da vicino il personaggio cosìcché gli unici paesaggi visibili sono ripresi nelle maniere più convenzionali. Più che un film di grandi scenari Wild è un film di vedute, uno in cui la pioggia suggerisce scene tristi, la neve momenti teneri e la violenza del caldo attimi pericolosi. Peccato, mannaggia!
5) Wicked Blood è una pellicola di quest'anno che probabilmente non vedremo mai nei nostri lidi e forse tutto sommato è cosa buona e giusta, perché trattasi di un prodotto che ha nella sua faretra numerose frecce appuntite ma anche un bagaglio indicibile di grossolani errori. Scritto e diretto da Mark Young, regista di qualche talento, il film racconta la storia di un diroccato paesino del sud gestito da un losco signore della droga, Frank (Sean Bean, caratterista di mille pellicole e nome noto di Game of Thrones). Lo spettatore segue la protagonista Hannah (Abigail Breslin, la ex bambina di Little Miss Sunshine), un'adolescente disincantata che dietro l'attitudine emo cela un'intelligenza spietata (lo capiamo vedendola consumare la sua passione per gli scacchi), mentre si appresta a lavorare nell'azienda di famiglia (è nipote del boss) per tirar su qualche soldo. In un'atmosfera che richiama non di rado il Missouri diruto e illegale di Winter's Bone, la giovane comprenderà presto che avere a che fare con il proprio clan criminale può essere davvero pericoloso. Lew Temple e Alexa Vega appaiono in ruoli di supporto e la Breslin si conferma attrice dotata anche se deve fare attenzione ai copioni che accetta, mentre è sempre divertente vedere Sean Bean in azione, soprattutto quando imita il solido accento strascicato degli stati del deep-south. Il resto delle prestazioni non riserva nulla di spettacolare, ma ci sono sicuramente cose interessanti: alcune immagini sono ben costruite, le ambientazioni perfette e il ritmo è notevole, ma la trama sembra talvolta un po' confusa e qua e là il dialogo sembra riferire al pubblico ciò che sta già vedendo. Le caratteristiche dei personaggi di contorno così come le dinamiche esistenti tra di essi spesso sono suggerite a parole più che mostrate sullo schermo, come se il budget miserrimo avesse tarpato ogni estro creativo anche in fase di scrittura. Tutte le scene si svolgono in una serie limitata di luoghi, il che favorisce in chi guarda una certa sensazione di "svolgimento in trappola". Il motociclista Bill Owens (James Purefoy) che ha una parte importante nella risolutiva retata finale che è (dovrebbe) rappresentare la catarsi di chiusura riassume pregi e difetti del film quando dice: «Io sono una piccola parte di una grande operazione». Ecco, il film ha tutte le carte in regola per affascinare, ma sarebbe stato bello vedere il resto della "operazioni più grande".
6) L’A.S.S.O. e cioè l'Amica Sfigata Strategicamente Oscena (adattamento equilibrista di DUFF, Designated Ugly Fat Friend), non è più la secchiona vestita scrausa degli anni '80, nè quella problematica dei '90 o ancora l'emo patibolare d'inizio millennio, piuttosto è una ragazza sveglia e dalla lingua sciolta, un geek pensante che solo una società votata al culto della popolarità transeunte come la nostra può ancora emarginare. Classico teen-movie dai non pochi meriti, L’A.S.S.O. nella manica è una gustosa sorpresa che rimescola i canoni del genere e inventa nuovi archetipi aggregando le più popolari della scuola assieme alle sfigate per rivitalizzare la concezione stessa di looser (non è più qualcuno che non riesce a rilucere per limiti congeniti ma una persona semplicemente interessata ad altro) e provare a raccontare ai ragazzi - ovvero il target primario del film - una storia d’amore che superi il concetto di “conquista” di un modello di bellezza che appare inarrivabile e ruoti invece intorno alla compatibilità. Il risultato, grazie anche all’uso di un umorismo sagace, è quasi eccelso. Pur avendo tra le mani una storia decisamente già narrata (evidenti gli echi di My fair Lady), il cineasta americano Ari Sandel riesce a rendere il racconto frizzante e contemporaneo. Perché se apparentemente si parla "solo" di amicizia e sentimenti, la pellicola sonda in maniera non sciocca anche il cambiamento di questi ultimi ai giorni nostri, e come tutto sia divenuto più multimediale e pericoloso per gli adolescenti. Ogni passo falso o giudizio negativo può divenire mainstream in pochissimi secondi e il cyber bullismo nelle scuole è divenuto sempre più diffuso. Ovviamente non si tratta di un capolavoro ma si sorride senza sensi di colpa e la protagonista Mae Whitman (già figlia del presidente in Indipendence Day) dimostra la giusta verve. È pura Hollywood addomesticata, s'intende, ma svolazza leggero leggero.
7) Strangerland è la riprova del fatto che, messi da parte botulino e Scientology, Nicole Kidman è ancora una grande attrice (noi non l'abbiamo mai dubitato). A metà strada fra il dramma e il thriller psicologico, il film diretto da Kim Farrant ha debuttato qualche mese fa al Sundance Festival e, benché apparentemente molto lontana dai circuiti mainstream del cinema hollywoodiano, non è comunque una pellicola destinata a passare inosservata, considerando i nomi di spicco che ne compongono il cast: oltre alla Kidman, brava e intensa, anche Hugo Weaving e Joseph Fiennes in grande spolvero. La storia verte su due coniugi che tentano di rimettere insieme i pezzi del loro matrimonio avviando una nuova esistenza nella remota e desertica città australiana di Nathgari. Mentre si avvicina una terribile tempesta di sabbia, la vita della coppia è sconvolta quando i loro due figli scompaiono nel deserto. Mentre Nathgari viene avvolta da una polvere rossa e densa, ad aiutare la coppia nella ricerca arriva l'agente di polizia David Rae. Presto appare chiaro che qualcosa di terribile è accaduto ai due ragazzini. Tragedia familiare a tinte forti il film ha momenti pesanti ma anche interpretazioni da Oscar. Noi, a dispetto di qualche tempo morto, lo promuoviamo in pieno.
8) Le belve, storia di due giovani imprenditori del traffico di stupefacenti che si mettono contro il cartello messicano, lo avevamo visto di sfuggita quando uscì, nel 2012. Ricaptato in tv con gli occhi di oggi e metabolizzata un po' la cotta verso lo scrittore che c'è dietro il romanzo iniziale (Don Winslow, bravo come pochi ma pure un po' ripetitivo) il film si lascia ancora guardare ma oggettivamente ha dei limiti che rendono nulli i pur numerosi punti a favore: pulp fino al midollo, Le belve è una "storiaccia" tutta droga, sesso e ambizione, e per raccontarla Oliver Stone (uno che quando vuole sa esattamente dove piazzare la mdp) è quasi obbligato ad usare tutti gli strumenti (ab)usati in anni e anni di cinematografia del genere. A cominciare ovviamente dall'uso della voce off, quella di Ofelia - fidanzata di entrambi i protagonisti - che non solo sa di muffito ma inanella perle di saggezza imbarazzanti: all'inizio ci avvisa che potrebbe non essere viva sino alla fine, poi c'introduce uno ad uno i personaggi, i suoi due amanti («Chon fa sesso, Ben fa l'amore»), i collaboratori e i nemici. Scritta con incredibile pigrizia, la pellicola ha una confezione impeccabile, laccata e sfacciatamente cool: ma non basta la professionalità a salvare un'operazione che sa di posticcio lontano un chilometro.