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#8 Incipit Madness

Creato il 04 marzo 2015 da Chiara

Non sentite già il profumo della primavera nell’aria? L’allergia imminente? Le giornate più lunghe e tiepide, la stagione dei trench, delle sciarpine e dei maglioncini? No? Solo io? Peccato! Al di là di tutto, siamo ad inizio mese, a metà settimana: quale momento migliore per tirare un po’ il fiato e godersi una carrellata di incipit in compagnia?
Febbraio è stato un mese faticoso, con la chiusura della sessione, un sacco di (brutti) pensieri, tanti equilibri stravolti e quei tre giorni di virus che lo hanno totalmente azzoppato. Se poi si pensa che siamo stati derubati di ben tre giorni, beh… è passato troppo rapidamente, dove si domanda il rimborso? Fortuna ho avuto al mio fianco belle letture! Marzo, please be kind.

#8 Incipit Madness

People call me Biggie. Not all people. Mom and some teachers call me Henry; but for the most part I’m Biggie.
Do I like nickname? No. Of course, I don’t. Nor do I care much for Brian Burke, who, nine years ago, thought up the moniker when we were playing tag during seconda-grade recess. I should have just told him to shut up or said something mean in verbal retaliation, but I didn’t. I just stood there, head hung, shoulders fallen, hand swaying in the icy wind of early December.
— Derek E. Sullivan, Biggie.

Ecco tutto ciò che conosco della Francia: Amélie e Moulin Rouge. La Tour Eiffel e l’Arco di Trionfo, anche se non ho la più pallida idea della loro reale funzione. Poi ci sono Napoleone, Maria Antonietta e una sfilza infinita di re che si chiamavano Luigi. E neanche in questo caso sono sicura di che cosa abbiano fatto, ma penso che c’entrino in qualche modo con la Rivoluzione Francese, che a sua volta c’entra con la parata del 14 luglio. Il museo d’arte si chiama Louvre e ha la forma di una piramide, e la Gioconda se ne sta lì, insieme alla statua della donna senza braccia. E poi ci sono caffè, o bistrot, o come diavolo si chiamano, a ogni angolo di strada. E i mimi. Il cibo pare sia buono e la gente beve un sacco di vino e fuma un sacco di sigarette.
— Stephanie Perkins, Il primo bacio a Parigi.

The T-screen in our family room crackles just before President Cartier fills the screen. I wonder briefly if Lawrence is watching him, too, like the rest of America, or if he was given an advance showing. After all, the president is his grandfather. I remember the first time I met President Cartier. He was less gray then, less wrinkled. He was joking that Lawrence was too mature for a six-year-old and asked me to take him under my wing, teach him how to be young.Now four years later, staring into the T-screen on one of the biggest nights of my life, I wish I had some of Lawrence’s maturity. I wish I weren’t so…afraid.
— Melissa West, Gravity.

La prospettiva. Devo vedere le cose nella giusta prospettiva. Non è un terremoto e neppure la strage di un pazzo armato o una fusione nucleare, no? Nella classifica delle catastrofi, la mia non è poi così tremenda. No, non così tremenda. Un giorno, quando mi ricorderò di questo momento, mi verrà da ridere e penserò: “Che scema sono stata a preoccuparmi!”.Smettila, Poppy. Non provarci nemmeno. Non sto ridendo, anzi mi sento male. Sto vagando nella sala da ballo dell’hotel con il cuore in gola, cercando invano sulla moquette a motivi blu, dietro le sedie dorate, sotto i tovaglioli di carta usati, dove non lo troverò mai.
L’ho perso. Ho perso l’unica cosa al mondo che non dovevo perdere. Il mio anello di fidanzamento.
— Sophie Kinsella, Ho il tuo numero.

Ero circondata dall’Esercito dei Ragazzi Fighi.
In molti credevano che l’Esercito dei Ragazzi Fighi fosse solo un mito, una leggenda metropolitana che circolava all’università, come quella della reginetta del ballo che si era buttata dalla finestra del dormitorio perché strafatta di acidi o di crack, anzi, no, forse era caduta nella doccia e si era fracassata la testa. La versione cambiava ogni volta che la sentivo. Ma, a differenza del fantasma che infestava la Gardiner Hall, l’Esercito dei Ragazzi Fighi era qualcosa che esisteva e respirava davvero. Erano in tanti.
Ed erano fighi, dal primo all’ultimo.
— J. Lynn, Rimani con me

Il Re dell’Estate le s’inginocchiò davanti. «È questa la tua scelta? Accetti il rischio del gelo dell’inverno?».
Lei lo guardò, guardò il ragazzo di cui si era innamorata da qualche settimana. Non si sarebbe mai sognata che non fosse umano, ma adesso brillava come se vampe di fuoco gli tremolassero sotto la pelle ed era uno spettacolo tanto bello e inconsueto che non riusciva a distogliere gli occhi.
«Sì».
— Melissa Marr, Wicked Lovely.

Carter fumbled the plate he was drying, barely catching it before it fell to the floor. Setting it down on the counter, he dropped the drying rag on top of it and left the kitchen, ignoring Zandra’s worried look. Leaving the kitchen, he cut through the dining room to the living room where his mother had retired for the evening.
Rebeka Bellwood sat in her favorite chair, her feet propped up on the ottoman. She had changed into her evening loungewear: black track pants and an oversized t-shirt. Her face was lined with age and worry, and there was more gray in her hair than Carter liked.
— Sasha L. Miller, Losing ground.

Una sera a Parigi, più o meno un anno dopo che era stato riaperto il Cinéma Paradis ed esattamente due giorni dopo che avevo baciato la ragazza con il cappotto rosso, mentre aspettavo con impazienza spasmodica il momento in cui l’avrei rivista, avvenne una cosa incredibile. Una cosa destinata a rivoluzionare la mia vita e a trasformare il mio piccolo cinema in un luogo magico: un luogo in cui si incontrano speranze e desideri, un luogo in cui i sogni diventano realtà. Improvvisamente mi ritrovai protagonista di una storia perfino più bella di quelle inventate per il grande schermo. Io, Alain Bonnard, fui strappato dalla mia orbita e catapultato nella più grande avventura della mia vita.
— Nicolas Barreau, Una sera a Parigi.



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