Mimosa sì, o mimosa no?
Ritorna l’8 marzo e io, come sempre, non so bene come comportarmi. Conosco donne che gradiscono moltissimo ricevere gli auguri (e se non lo fai ci restano male), altre che – se solo accenni a farlo – ti aggrediscono brutalmente sostenendo che il tributare una giornata alle donne è prerogativa tipicamente maschilista.
E voi, sulla “festa” della donna… cosa ne pensate?
Siete pro o contro?
Chi ricorda le origini della festa medesima?
È valida, ancora oggi, la celebre canzone di John Lennon, Woman is the nigger of the world? (Qui sotto il video)
La donna è ancora il negro del mondo?
Dite la vostra.
E poi, qualunque sia la vostra posizione, vi invito a scrivere di donne che meritano di essere ricordate… a prescindere dall’8 marzo.
Massimo Maugeri
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L’8 marzo negli anni scorsi…
Negli anni scorsi, su Lipperatura, Loredana Lipperini, aveva scritto (senza mezzi termini) “sulla questione 8 marzo, mi pare di aver detto parecchio, e soprattutto mi pare sia evidente che concordo con quante hanno deciso di lasciare le celebrazioni “ufficiali” a chi della questione femminile ha fatto (e purtroppo sta facendo) mera cosmesi: vedasi le liste elettorali.
Su La poesia e lo spirito, ricordo questa iniziativa di Fabrizio Centofanti.
Sull’8 marzo 2009, inoltre, vi segnalo un “quaderno” di 167 pagine realizzato dagli amici di Nazione indiana: potete scaricare il pdf cliccando qui
Vi propongo un articolo di Sabina Corsaro dedicato a Françoise Sagan.
E un interessante pezzo di Stefania Nardini, pubblicato su La poesia e lo spirito (oltre che sul Corriere Nazionale), che merita di essere letto e commentato.
Infine, in coda al post, un omaggio da parte mia a tutte le donne di Letteratitudine. Chiamo in causa, ancora una volta, John Lennon. Stavolta il brano è (semplicemente) Woman.
Ed è dedicato a tutte voi.
Non vogliatemene.
Woman I can hardly express,
My mixed emotion at my thoughtlessness,
After all I’m forever in your debt,
And woman I will try express,
My inner feelings and thankfullness,
For showing me the meaning of success,
oooh well, well,
oooh well, well,
Woman I know you understand
The little child inside the man,
Please remember my life is in your hands,
And woman hold me close to your heart,
However, distant don’t keep us apart,
After all it is written in the stars,
oooh well, well,
oooh well, well,
Woman please let me explain,
I never mean(t) to cause you sorrow or pain,
So let me tell you again and again and again,
I love you (yeah, yeah) now and forever,
I love you (yeah, yeah) now and forever,
I love you (yeah, yeah) now and forever,
I love you (yeah, yeah)…
(Massimo Maugeri)
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La scrittrice maledetta: Françoise Sagan
di Sabina Corsaro
“Non, Sagan, t’es pas toute seule” declamava una petizione di diversi anni fa, richiesta e portata avanti dagli estimatori di Françoise Sagan (personaggi, a loro volta, rappresentativi della cultura francese contemporanea). Una petizione che era stata lanciata per sostenere la scrittrice nei suoi problemi finanziari con le banche e che aveva coinvolto scrittori e lettori.Personaggio ribelle e non catalogabile quello di Françoise (nella foto), oscillante tra l’immagine della ragazza borghese e la scrittrice scandalosa, discendente fedele di quel filone di poeti maledetti che aveva visto nella dannazione un modello irrinunciabile per l’osmosi di arte e vita.
E burrascosa, violenta e movimentata fu la sua, di vita.Françoise Quoirez (il suo nome anagrafico) nasce il 21 Giugno del 1935 a Cajarc, nel Sud-ovest della Francia. Trasferitasi definitivamente a Parigi dopo la Liberazione studia nei collegi religiosi conseguendo nel ’52 il diploma di scuola media superiore. Qualche anno dopo viene bocciata all’esame di ammissione alla Sorbona. Nel 1954 esce Bonjour tristesse che apporterà una fama indescrivibile ad una ragazza di appena vent’anni che da allora si firmerà col nome di Sagan. Sagan è il nome di uno dei personaggi de La Recherche di Proust: enigmatico, ricco di valenze simboliche non facili da perscrutare; Sagan è la principessa che racchiude in sé dei significati quasi mistici che, tuttavia, si mescolano con la sua corruttibile componente umana. Ben presto la ragazza timida e poco femminile diviene un personaggio noto: con abiti eccentrici Françoise passeggia lungo i boulevards accompagnata da uomini stravaganti e hanno inizio le sue vicissitudini sentimentali che la porteranno al concepimento di un figlio. Sposa l’editore Guy Scholler ma divorzia dopo alcuni anni, per risposarsi subito dopo con un progettista di ceramiche. Ma è la scrittrice che è dentro lei a divenire una voce di denuncia contro l’ipocrisia dei costumi della società a cui appartiene. Il caso letterario suscitato da Bonjour tristesse ha risonanza notevole in quegli anni: la descrizione veritiera e realistica della gelosia della protagonista Cécile nei confronti del padre vedovo e ‘viveur’ diviene l’elemento centrale del libro. Quello che in esso appare percepibile è il sapore del disagio che investe la ragazza ventenne quando apprende l’improvviso e temuto innamoramento del padre, vissuto come minaccia per quel loro rapporto esclusivo, definito e sicuro. Se Sagan richiama il personaggio proustiano, Françoise vive in modo simile a Marcel: frequenta l’ambiente mondano, borghese, artificiale ed è attorniata da Wisky e sostanze stupefacenti, il tutto sullo sfondo di un vago e onnipresente snobismo. I personaggi che vi sono inseriti si guardano vivere lasciandosi trascinare dalle convenzioni, dai comportamenti omologati e hanno coscienza del proprio esistere solo quando prendono coscienza del proprio corpo (ecco allora l’uso dell’alcol, della danza e dell’amore fisico). Françoise prova tutte queste forme di felicità ridimensionata, poiché per lei essa esiste solo nella forma della contentezza o del piacere temporaneo.
“Bruciare la vita, bere, stordirmi, ecco quel che mi ha sempre sedotto. E quanto mi piace, questo gioco derisorio e gratuito nella nostra epoca meschina, sordida e crudele ma che, per un caso prodigioso di cui vivamente con essa mi congratulo, mi ha dato il modo di sfuggirle”.
Tra i suoi libri più significativi: Lividi dell’anima (1972), Un profilo perduto (1974), Occhi di seta (1976), Un letto disfatto (1977), La donna truccata (1981), Lo specchio smarrito (1996), Le piace Brahms?
E i libri della sua intera produzione sembrano racchiudere l’impronta di un limite varcato, di uno stato d’animo ambiguo, a metà tra l’infelicità e la perdizione lussuriosa, come quello di chi sa che per sfuggire alla tristezza deve lasciarsi travolgere da un piacere disperato.
Sabina Corsaro
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QUANDO LA MIMOSA ERA UN FIORE ROSSO
di Stefania Nardini
Era l’Italia appena liberata e la mimosa era ancora un fiore rosso.
Era l’Italia delle le macerie lasciate dal nazifascismo, un’Italia da ricostruire in fretta. La rivista “Noi Donne”, per molto tempo un foglio clandestino, era strumento di collegamento tra i “Gruppi di difesa della donna” nati in seno alla resistenza. Nella Roma del 1944 nasceva l’UDI (Unione Donne Italiane) e nel 1945 venne proclamata ufficialmente la “giornata”.
La mimosa era ancora un fiore rosso quando “Noi donne” scriveva: “L’8 marzo sarà giorno di lotta per salvarci dalla fame, per difendere il pane ai nostri figli, alle nostre famiglie, per difenderci dal freddo e dalla miseria…”.
Le comuniste e le socialiste dell’Udi, le rappresentanti del Cif (Centro italiano femminile, riferimento delle donne cattoliche), sindacaliste della Cgil, partigiane, vedove dei caduti si ritrovarono l’8 marzo 1945 a celebrare la Festa della Donna nella sala del liceo romano Visconti. “Tutte le donne – dice Elena Caporaso, socialista dell’Udi nel bellissimo libro dedicato all’8 marzo a cura di Tilde Capomazza e Marisa Ombra – hanno interessi comuni, la fine della guerra un nuovo ordine sociale”.
La mimosa non c’era ancora. “Eravamo nel ’46 e l’Udi preparava il primo 8 marzo…. Mentre si discuteva insieme sul da farsi, Rita Montagnani suggeri’ di trovare un fiore che potesse caratterizzare visibilmente la Giornata. Nei lunghi anni del fascismo mettersi all’occhiello un garofano rosso il primo maggio era stato, per molti, un atto non privo di rischi, di opposizione al regime di Mussolini. Nella Parigi del Fronte popolare, il primo maggio si distribuivano mughetti. Ci voleva, dunque, un fiore reperibile agli inizi di marzo, poiché le serre erano poche e non arrivavano fiori in aereo. A noi, giovani romane, vennero in mente gli alberi coperti di fiori gialli, quando ancora le altre piante sono spoglie, che crescevano rigogliosi in tanti giardini di Roma e dei Castelli: e pensammo che quel fiore era abbondante e , spesso, disponibile senza pagare. Ma non ci venne in mente che in tanta parte d’Italia non era cosi’….
Nel corso degli anni successivi si è poi molto almanaccato sui motivi ‘reconditi’ della scelta…. La verità è più semplice e banale”.
A raccontare come nasce il simbolo dell’8 Marzo é Marisa Rodano in una delle sue preziose testimonianze raccolte da Ombra e Capomazza. Un fiore al quale si ispiro’ Sibilla Aleramo nella bellissima poesia “Mimosa d’Amalfi”, che divenne presto un omaggio alle donne.
Tanto tempo è passato da allora. Il clima di quell’Italia i cui protagonisti della politica si chiamavano De Gasperi, Togliatti, Nilde Iotti, Tina Anselmi, era di un paese che, sia pure nelle diverse posizioni ideologiche, rivendicava il suo orgoglio. Un 8 Marzo di festa, ma anche un grande momento di rivendicazione del popolo femminile che scendeva nelle piazze unito, superando le diversità politiche.
La mimosa era un fiore giallo…. Che le ragazze hanno messo tra i capelli gridando “io sono mia”, le donne tutte hanno esibito nel chiedere parità.
Era un fiore giallo. Che oggi si tinge di rosso. Rosso sangue.
Sangue di donne.
Donne violentate, uccise, discriminate nel mondo del lavoro, lasciate nella solitudine della malattia, aggredite nel momento in cui esercitano il diritto di essere persone.
A dirlo non sono solo i dati statistici. Il sangue delle donne è sui selciati delle strade, sul pavimento degli appartamenti. E’ il sangue di in una gigantesca ferita collettiva che segna una fase a dir poco preoccupante.
Mimosa macchiata di rosso. Un 8 Marzo, quello di questo 2008, in cui si spegne il desiderio della festa, in cui si deve ricominciare una battaglia che ha un senso culturale e politico che si chiama desiderio di civiltà.
A sessant’anni da quei giorni in cui circolavano i fogli clandestini e si inventava un simbolo, tanto si è fatto e tanto ora rischia di essere distrutto. Si è passati dall’approvazione di leggi moderne in nome dell’autodeterminazione e del rispetto della donna in quanto persona, allo stupro che è divenuto “pratica consueta”, una sorta di ciliegina sulla torta, quando viene compiuto un crimine. Si ruba e si stupra. Si rapina e si violenta. Si desidera una donna, la si sevizia.
Questo si legge nei tristi fatti di “ordinaria” cronaca quotidiana. Mentre un paese allo sbando affronta un problema serio e delicato come quello dell’aborto, a colpi di blitz in un ospedale dove una donna sceglie di ricorrere a una legge per interrompere una gravidanza nella prospettiva certa di un figlio disabile.
Si puo’ essere d’accordo o meno sull’aborto, ma qui è in gioco la civiltà, il metodo da “squadraccia” usato nei confronti di una persona appena uscita da una sala operatoria.
Non va bene. E temi cosi’ importanti vanno discussi in un clima politico più sereno.Mimosa macchiata di sangue. Sì, perché ad abortire oggi sono le donne delle classi più disagiate, le extracomunitarie per esempio, mentre il ricorso all’interruzione di gravidanza è complessivamente in calo.
“L’8 marzo sarà per noi giorno di lotta per salvarci dalla fame, per difendere il pane ai nostri figli, alle nostre famiglie, per difenderci dal freddo e dalla miseria…”, dicevano le donne di quell’Italia liberata. Perché rinunciare a una maternità o sottoporsi a una pratica come quella dell’aborto che, non dimentichiamolo, é stata molto diffusa clandestinamente e con grandi speculazioni economiche, non è un piacere.
“I nostri figli, la miseria…”. Sì, la miseria. Perché le donne sono le prime a dover fare i conti con una povertà sempre più crescente, da lavoratrici, da madri, da disoccupate. Ricorrere all’aborto in un paese della vecchia Europa sta a significare che non esistono le condizioni per compiere quel salto verso una modernità vera. Indipendentemente dalle scelte individuali, che riguardano la coscienza e le condizioni oggettive.
Alla base di un’interruzione di gravidanza possono esserci mille motivazioni. Ma ad alcune dovrebbe essere lo Stato a rispondere. Quali sono e cosa offrono i servizi per la famiglia, per i figli, per la donna? Dove sono? E non si puo’ immaginare che la risposta venga dal volontariato come accade per i paesi del Terzo Mondo.
Come lo stupro non è questione di ordine pubblico da risolvere con “ronde” o leggi speciali. Intanto non sarebbe male applicare al meglio quelle in vigore, tenendo conto che il cuore del problema è la regressione culturale.
Al momento tre donne su dieci sono vittime di abusi, nel 95% dei casi maturati tra le mura domestiche. Sette milioni di donne in età lavorativa sono fuori dal mercato.Tutto cio’ mentre assistiamo alle lacrime di lady Mastella, ascoltiamo i messaggi della signora Brambilla o, quando ci va bene, le parole della signora Palombelli che, da brava giornalista, non cede al bon ton di evitare la conduzione di trasmissioni sulla politica avendo un marito supercandidato.Altri tempi quelli di Marisa Rodano e Tina Anselmi!
La mimosa è un bel fiore. Ma la festa è finita.
Stefania Nardini
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AGGIORNAMENTO del 10 marzo 2008
Segnalo un libro che potrebbe essere in qualche modo collegato con il dibattito in corso all’interno di questo post. Si tratta del nuovo interessantissimo romanzo del Nobel per la letteratura Doris Lessing: “Una comunità perduta” (Fanucci, 2008, pagg. 256, euro 17).Il tema è il seguente: delle donne vivono in una specie di comunità procreando senza essere fecondate dagli uomini e mettendo al mondo solo bambine destinate a perpetuare la loro specie.
Che impressione vi fa?
Segue la sinossi del libro.
Un senatore dell’antica Roma, giunto al termine della vita, decide di intraprendere la sua ultima impresa: il racconto della storia dell’umanità. La sua narrazione si incentra sul popolo delle Cleft, una comunità ormai scomparsa di donne che vivevano in una sorta di paradiso terrestre, procreando senza essere fecondate dagli uomini e mettendo al mondo solo bambine, destinate a perpetuare la loro specie. Ma la nascita inattesa di una creatura strana e sconosciuta, un maschietto, infrange per sempre l’armonia della piccola comunità, mettendone a repentaglio l’esistenza stessa. L’ultimo, romanzo di Doris Lessing, scritto e pubblicato nel 2007 in Inghilterra, affronta i temi tipici della produzione letteraria dell’autrice: il rapporto tra uomo e donna, la necessità che due esseri così simili ma al tempo stesso tanto differenti imparino a vivere fianco a fianco nel mondo, e la constatazione di come i caratteri peculiari dei due sessi producano effetti su ogni aspetto della vita degli individui.
(Massimo Maugeri