di Cristiano Abbadessa
Viene in conseguenza l’aver sempre portato con me la tendenza a vedere donne e uomini non solo su un piano di parità, ma anche tendenzialmente di uguaglianza, che è cosa un po’ diversa. Ogni persona ha il proprio carattere, i propri gusti, le proprie inclinazioni; ma, nel mio modo di pensare e vedere le cose, ho sempre creduto poco al “tipicamente maschile” o “tipicamente femminile” che dovrebbe essere proprio di alcuni modi di essere o di porsi di fronte alla vita. E ho stentato a relazionarmi con la progressiva riscoperta dei relativi “specifici” di genere, tornati in auge nel corso degli anni e non solo attraverso le ben note forme becere o le limitazioni sociali penalizzanti per le donne di cui abbiamo fin troppo noti esempi nella cronaca e nella vita quotidiana.
Nel mio lavoro di consulente editoriale mi sono confrontato prevalentemente con donne, perché l’editoria è un settore in cui la presenza femminile è molto forte. Soprattutto nelle redazioni, perché poi magari a capo di un team tutto al femminile sta seduto un dirigente maschio (tanto per confermare che la parità non è che sia stata proprio raggiunta, specie nelle grandi realtà dove la carriera si fa con antichi metodi).
Come editore, fedele a quanto detto sopra, non mi sono mai posto il problema di quote riservate, ritenendo le autrici in grado di “competere” perfettamente alla pari coi loro colleghi. Caso ha voluto che i primi titoli selezionati siano stati quasi tutti di donne, anche se poi, specie se guardo alle opere già scelte e in attesa di essere pubblicate, la situazione si è prima un po’ riequilibrata e potrebbe poi ribaltarsi. Semplici statistiche, perché il genere di appartenenza è davvero l’ultima cosa che guardo quando scelgo in via definitiva di proporre un contratto di edizione (semmai ci tengo ad avere un equilibrio tra giovani e meno giovani, così come ho dei limiti o delle preferenze di carattere geografico che si legano alle possibilità di promozione).
Sento spesso parlare di “letteratura al femminile”, e naturalmente l’espressione mi convince poco. Così come non sono molto convinto che esista una lettrice “tipicamente femminile”, anche se le statistiche ci dicono che le donne leggono più degli uomini (soprattutto leggono più libri). D’altra parte, se volessimo restare fedeli agli stereotipi, difficilmente Autodafé avrebbe questa prevalenza di autrici: la narrazione della realtà sociale dell’Italia contemporanea appare, a chi crede a queste distinzioni, una tematica semmai prettamente maschile. Vero, devo riconoscere, che esistono magari differenti modalità di approccio, che le scrittrici tendono un po’ di più all’introspezione e che gli scrittori amano proiettarsi in scenari futuribili; sono peraltro considerazioni che ricavo dalla massa del materiale scartato, spesso di scarso livello, e non da quello pubblicato.
Fin qui ho buttato giù qualche ricordo e qualche sensazione. Ma sulla scrittura al femminile e al maschile mi piacerebbe raccogliere qualche parere, sempre con la preghiera di fare anzitutto riferimento ai nostri libri e ai nostri autori. E magari anche qualche riflessione sul fatto che, come dicevo, laddove emerge uno stereotipo di genere la qualità letteraria tende secondo me ad abbassarsi, mentre la capacità di un punto di vista autenticamente personale arricchisce il valore e lo spessore dell’opera.