21 dicembre 2015 di Redazione
di Lucio Causo
Il 9 aprile del 1945, nel porto di Bari, saltò in aria una nave da carico americana, la “Henderson”. Si parlò subito di quinta colonna.
– Sono stati quelli della quinta colonna! – sbraitava la gente.
In quei giorni spie, dinamitardi, sabotatori, erano indicati come appartenenti alla quinta colonna.
Si era all’inizio della primavera, precisamente nella prima decade di aprile. La città e il porto erano tranquilli. I bambini frequentavano regolarmente la scuola; i genitori erano al lavoro nelle fabbriche, negli uffici e negli impianti portuali. Nella città vecchia e nel porto si sentiva il vociare della gente e degli operai addetti alle operazioni di carico e scarico dei materiali bellici. Colonne di autocarri militari entravano e uscivano dai depositi.
Alle 11,45, nell’Istituto della Madonna del Carmine retto dalle suore di Ivrea, nella città vecchia, suonò la campanella per l’ora di adorazione in Cattedrale.
Mentre le ragazzine si accingevano a scendere le scale, all’improvviso, una tremenda scossa, seguita da un boato e, poi, dalla caduta di calcinacci, staccò dal muro il grande finestrone del ballatoio. Altre scosse, altri boati. Il sangue cominciò a sgorgare dalle ferite delle bambine colpite dal finestrone; le più gravi piangevano e gridavano a squarciagola aiuto.
Le ragazzine che riuscirono a sgattaiolare fuori dall’Istituto si avviarono, correndo, verso casa, a ridosso della Cattedrale. Sulle rovine di uno stabile bombardato due anni prima, il 2 dicembre 1943, una madre con una bambina tra le braccia, era stata colpita in pieno da una mostruosa scheggia lasciando sul muro una larga striscia di sangue. La gente terrorizzata usciva dalle case, passava sui corpi dei morti, dei feriti e si riversava in piazza guardando in alto, verso il cielo, pensando ad un bombardamento aereo. Da quel vociare, venivano fuori interrogativi, paure, strane congetture. Intanto dalla Cattedrale venivano giù mattoni, detriti e calcinacci.
All’improvviso, dalla parte del porto coperto da grandi nuvole di fumo nero che salivano verso il cielo come mostri orrendi, cominciarono a sbucare uomini sporchi di sangue e catrame, gli occhi rossi come brace: correvano senza meta, gridando e implorando aiuto.
Nella città vecchia il panico cresceva a dismisura perché tutti o quasi gli uomini lavoravano al porto, e, quel giorno, i più stavano scaricando tonnellate e tonnellate di bombe e materiali bellici di ogni tipo. La gente si agitava, gridava, piangeva, correva verso il porto disperata.
Finalmente si sentì gridare la notizia: – E’ scoppiata la nave americana “Henderson”, sì, quella carica di munizioni!
Alcuni giorni prima, quella nave aveva destato non poche preoccupazioni ai portuali. Dalla stiva di poppa si erano uditi degli strani scricchiolii.
Quella mattina del 9 aprile alcuni operai erano stati chiamati per spostare la “Henderson” dalla banchina 16 alla banchina 14, cioè verso il braccio esterno del porto.
Quel giorno, sulle banchine ricostruite dopo il bombardamento del 2 dicembre 1943, il lavoro era intenso: un continuo andirivieni di uomini e mezzi trasportavano il materiale bellico nelle officine e nei capannoni adibiti a depositi militari. Seimila uomini: neozelandesi, americani, inglesi, indiani, slavi, russi, lavoravano senza sosta. Anche tre squadre di operai, circa 170 uomini, si alternavano, a turno, per trasportare e sistemare la merce.
Improvvisamente si sentì lo spaventoso scoppio; nel risucchio della nave che colava a picco, furono tanti gli uomini inghiottiti dal mare. Una parte della nave era saltata in aria, i rottami erano caduti sul porto e nella città vecchia. Grida, gemiti, urla e pianti. La città venne attraversata da un improvviso fremito di disperazione. L’accesso al porto fu transennato ed alcuni uomini, sfuggiti al disastro per miracolo, portarono notizie fresche. Sulle banchine i morti non si contavano più. Una massa di gente scalmanata e vociante si dirigeva verso gli ospedali e il cimitero.
Le strade erano deserte, sulla città gravava un silenzio di morte, dappertutto un odore pregnante di zolfo e di catrame. Al porto le fiamme consumavano corpi e oggetti. Di tanto in tanto il rogo sembrava quietarsi, poi, alimentato da olio, benzina, gomma di copertoni, riprendeva a brillare più ampiamente, con alte fiammate. Tanti uomini che al momento del disastro si trovavano sulla nave americana o nel porto a lavorare erano spariti, senza lasciare alcuna traccia. Nella zona portuale erano accatastati mucchi di sacchi con dentro resti umani sanguinanti.
All’alba del 10 aprile 1945, finalmente si chiuse un giorno terribile per la città di Bari.
I morti accertati furono 317, i dispersi 142, migliaia i feriti. Queste cifre riguardano le perdite civili. I comandi militari italiani e gli Alleati, al momento, non fecero conoscere le loro perdite. Le case della città vecchia dichiarate inabili furono circa mille.
La nave “Charles Henderson” era piena di ordigni all’iprite (potente aggressivo chimico tossico e vescicatorio). Quando all’improvviso saltò in aria, con un forte boato, in pochi minuti Bari fu letteralmente sconvolta da uno dei maggiori disastri della guerra nel Mediterraneo. Il piroscafo americano, per fortuna, esplose solo in parte. La nave si spezzò in due tronconi, uno dei quali s’inabissò. Dal cielo pioveva nafta e cadevano detriti di ogni genere. Esplosero i vetri delle abitazioni e degli edifici pubblici del lungomare e del quartiere murattiano. Le ferite più frequenti riportate dalle vittime furono quelle al volto ed alla testa. Le strutture portuali vennero completamente distrutte. Furono demoliti molti stabili nel borgo antico e più di mille famiglie rimasero senza tetto. I danni al patrimonio artistico ed alle chiese, tra cui San Nicola e la Cattedrale, furono incalcolabili.
A poche settimane dalla fine della guerra, gli anglo-americani stavano ancora accumulando enormi quantitativi di armi e munizioni per l’esercito. Anche la nave “Henderson”, al pari di quelle colpite il 2 dicembre 1943 dal bombardamento tedesco, custodiva nelle sue stive bombe con aggressivi chimici. Una rigorosa censura sul carico della nave venne imposta dalle autorità alleate, ma anche da quelle italiane. Si voleva nascondere la preparazione della guerra chimica. Dopo lo sbarco in Sicilia e l’arrivo in Puglia, gli Alleati scoprirono ingenti depositi nazisti di iprite e di fosgene. Dunque gli Alleati si preparavano a rispondere ad un eventuale attacco nemico con gas bellici.
Le tragiche conseguenze della guerra riemergono ancora oggi, nonostante il lungo tempo trascorso. La riattivazione della memoria può costituire un argine contro la diffusa indifferenza dei giovani e degli adulti, evitando il rischio che una festa molto importante come quella del 25 aprile non importi più a nessuno.