Trovandosi in una disposizione d'animo particolarmente tollerante (o essendo cuorcontenti di natura o, anche, sic et simpliciter indifferenti) si potrebbe sorvolare sulle magagne organizzative del Festival Internazionale del Film di Roma appena concluso e concentrarsi sulle proposte che il suddetto - bene o male - e' riuscito a mettere insieme. Basterà allora ricordare qui - a futura memoria, chissà, o per esausta testardaggine - in ordine sparso e senza la minima pretesa di arrivare ad incidere su meccanismi che sembrano vivere di vita propria, ben al di la', cioè, dello spazio, del tempo e del buon senso, spettacoli iniziati anche con trenta-minuti-trenta di ritardo; la logica indecifrabile ma non per questo più risolutiva che vivacizzava l'accesso alle sale tra i possessori di accredito e i titolari di biglietto giornaliero; l'utilizzo di spazi per la proiezione dei film poco più grandi della sala d'aspetto di un dentista, con tanto di sedie più o meno degne della medesima; cancellazione di titoli senza alcun preavviso e successiva spiegazione, e altre piacevolezze...
Per ciò che attiene alla programmazione, il consuntivo può dirsi soddisfacente, tenendo sempre nella giusta considerazione variabili specifiche dell'universo cinematografico, magari ovvie nel loro puntuale riproporsi, comunque difficilmente derogabili, a dire, presunti o reali capolavori - già di per se' in entrambi i casi rari - assenti o ufficialmente "non pronti" per l'occasione; difficoltà di reperimento di nomi altisonanti anche per via di strategie tanto elaborate quanto sfuggenti ad opera delle grandi majors; risorse eternamente all'osso che non consentono, da un lato, ampi margini di manovra (vedi sopra) e, dall'altro - in concorso con un invalsa tendenza alla cautela che orienta ad ottenere il massimo col minimo sforzo - indirizzano, quasi senza attrito, verso la politica dell'usato sicuro.
Come che sia, resta importante ribadire la conferma - tutt'altro che scontata - di pezzi grossi come Fincher e Miike (da ricordare la sua conferenza stampa oltreché per le risposte sempre argute e ammantate di cortesia, per la mise sfoggiata a base di bermuda e massicce scarpe da ginnastica); notare l'esordio di Gilroy dietro la mdp; assistere alla riflessione dolente ma vitale - e mai ruffiana o ricattatoria - di Matthews nel tratteggiare i contorni di una patologia per tanti versi ancora misteriosa come l'autismo; seguire il precisarsi della poetica di Moverman e della spregiudicatezza inventiva di Jeunet: calarsi con apprensione e gustare la strana malia del nero esistenziale di Anger. Così come salutare il redivivo Smith (che con "Tusk" getta le basi per una trilogia sul grande nord); intrattenersi con leggerezza grazie al godibile ritratto giovanile pensato da Meyer; ripercorrere i sentieri di un'eredita comune attraverso la testimonianza di una pagina negletta della Storia, per mano di Jacoby. Qualche parola, poi, e' giusto spenderla per alcuni italiani i quali, in un panorama sociale ed economico davvero poco esaltante, hanno dimostrato, pur nelle difficoltà (o proprio in virtù di esse), di avere idee e, soprattutto, gli strumenti per dar loro forma: Sportiello ("Index zero") - splendidi i bianchi e i grigi taglienti della sua fotografia - e Di Stefano ("Escobar: paradise lost") - dallo stile più classico ma alle prese con una materia che tra epopea criminale, avventura e romanzo di formazione, non nasconde ambizioni di ampio respiro - sembrano, in altre parole, guardare senza esitazioni altrove: più di tutto, sembrano cercarlo, quest'altrove, e avere voglia di esprimerlo. E' già tanto.
Con questa nona edizione del RFF si chiude anche l'esperienza di Müller al comando delle operazioni. Se il futuro e' incerto per definizione, quello dell'appuntamento romano - allo stato attuale dei fatti - appare ancor più nebuloso. Non resta che sperare per il meglio perché, come si dice, "sperare non costa niente", anche se pero', alla lunga, snerva.
TFK
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