Forse non aveva proprio tutti i torti Faulkner quando annotava che “il passato non e’ mai davvero del tutto passato”.
E, parimenti, è improbabile che una osservazione di uguale tenore ma
meno perentoria possa trovare maggiore applicazione in una società come
quella odierna – la società dei consumi e dell’ obsolescenza programmata dei prodotti –
uno dei pilastri fondativi della quale è proprio la riproposizione
ciclica d’interi segmenti della sua storia, in una sorta di “inesorabile ritorno dell’uguale” che – si potrebbe persino calcolarlo – non risparmia (praticamente) nulla.
Se,
poi, si restringe questo principio ad un particolare settore del vivere
associato, a dire quello del generico intrattenimento/spettacolo, ecco
che si nota come la tendenza alla replicazione si approssimi al cento
per cento. All’interno di una reiterazione così serrata, non hanno mai
smesso di saltare fuori, prima o poi, i cosiddetti “anni ’80”, di cui, a
fasi alterne, si continua a dire tutto e il contrario, contribuendo, in
via ulteriore, alla loro perpetuazione. A pensarci – per quanto su una
scala limitata -la sensazione/condanna di vivere in un eterno presente, deriva anche in parte da questo: da una sistematica riesumazione/riproposizione/riciclo
di tendenze, di modelli (con tutto il loro strascico di atteggiamenti
più o meno esteriori, veri o presunti cambi di mentalità, piccole manie,
et.) che finiscono per rallentare il tempo in una specie di onnicomprensiva contemporaneità.
Non
stupisce più di tanto, allora, ritrovarsi “fra le mani”, oggi,
movimenti artistici e relativi protagonisti – sulla cui idea di
definitivo tramonto i meno inclini alla nostalgia o i pragmatici duri e
puri almeno una volta si sono baloccati – perché è un po’ come se non se
ne fossero mai andati. Testimonianza di quanto accennato può essere
questo “Soul boys of the Western world” del britannico George Hencken,
documento incentrato sulla storia del gruppo pop degli Spandau Ballet,
cresciuto su ciò che restava del movimento punk di fine anni ’70 e –
mutati gusti e costumi – capaci di afferrare un successo planetario che
ha visto il suo apogeo al momento dell’uscita dell’album “True” (1982),
per scemare piano piano lungo il decennio, fino allo scioglimento, alle
controversie legali, alla malattia (superata) di uno dei membri.
Prendendo le mosse dalle origini proletarie omiddle class dei
cinque ragazzi, Hencken si avvia da subito sul sentiero ben tracciato
delle “biografie in musica”, ossia in una sorta di diligente lavoro di
repertazione che, intervallando cinegiornali d’epoca, programmi
televisivi che contestualizzano i fatti, fotografie e filmini
dell’archivio privato dei musicisti, offre un quadro d’assieme in cui si
sovrappongono le tinte contrastate del desiderio di riscatto, quelle
del genuino amore per la musica, come un certo gusto per lo sberleffo
unito ad un altrettanto puntuale scaltrezza nella gestione degli affari,
la cui sostanziale prevedibilità, però, alla lunga, non viene intaccata
neanche dal montaggio nervoso.
Si rincorrono così, accanto alle hit più
famose della band (la quale, si stenterà a crederlo, ha emesso i primi
vagiti su sonorità punk), “True”, “Highly strung”, “Through the
barricades”, “Gold”, “I’ll fly for you”, e assieme a tutto il corollario
di mise improbabili,
pettinature vaporose, limousine e migliaia di adolescenti in delirio,
immagini che giustappongono la scena dei locali londinesi di inizio anni
’80, il ritorno ad una musica più ballabile, l’avvento del decennio
della Thatcher, “Top of the Pops”, MTV, Live-Aid, perché impossibilitate
ad offrire una qualunque prospettiva che non sia la loro semplice
riproposta in un moto circolare che preclude all’analisi l’utilizzo di
uno dei suoi strumenti più efficaci: la vera distanza. Nel lavoro di
Huncken tale distanza non può darsi dal momento che pressoché tutto ciò
che è mostrato è ancora presente – magari mutato ma nemmeno tanto – e
continua a tornare e a passare, come un lieve detergente su una
superficie senza asperità (gli Spandau saranno di nuovo in tour a
partire dal 2015). Amen.
TFK (voto **)
Magazine Cinema
9 festival internazionale del film di roma: soul boys of the western world
Creato il 20 ottobre 2014 da Veripaccheri
Forse non aveva proprio tutti i torti Faulkner quando annotava che “il passato non e’ mai davvero del tutto passato”.
E, parimenti, è improbabile che una osservazione di uguale tenore ma
meno perentoria possa trovare maggiore applicazione in una società come
quella odierna – la società dei consumi e dell’ obsolescenza programmata dei prodotti –
uno dei pilastri fondativi della quale è proprio la riproposizione
ciclica d’interi segmenti della sua storia, in una sorta di “inesorabile ritorno dell’uguale” che – si potrebbe persino calcolarlo – non risparmia (praticamente) nulla.
Se,
poi, si restringe questo principio ad un particolare settore del vivere
associato, a dire quello del generico intrattenimento/spettacolo, ecco
che si nota come la tendenza alla replicazione si approssimi al cento
per cento. All’interno di una reiterazione così serrata, non hanno mai
smesso di saltare fuori, prima o poi, i cosiddetti “anni ’80”, di cui, a
fasi alterne, si continua a dire tutto e il contrario, contribuendo, in
via ulteriore, alla loro perpetuazione. A pensarci – per quanto su una
scala limitata -la sensazione/condanna di vivere in un eterno presente, deriva anche in parte da questo: da una sistematica riesumazione/riproposizione/riciclo
di tendenze, di modelli (con tutto il loro strascico di atteggiamenti
più o meno esteriori, veri o presunti cambi di mentalità, piccole manie,
et.) che finiscono per rallentare il tempo in una specie di onnicomprensiva contemporaneità.
Non
stupisce più di tanto, allora, ritrovarsi “fra le mani”, oggi,
movimenti artistici e relativi protagonisti – sulla cui idea di
definitivo tramonto i meno inclini alla nostalgia o i pragmatici duri e
puri almeno una volta si sono baloccati – perché è un po’ come se non se
ne fossero mai andati. Testimonianza di quanto accennato può essere
questo “Soul boys of the Western world” del britannico George Hencken,
documento incentrato sulla storia del gruppo pop degli Spandau Ballet,
cresciuto su ciò che restava del movimento punk di fine anni ’70 e –
mutati gusti e costumi – capaci di afferrare un successo planetario che
ha visto il suo apogeo al momento dell’uscita dell’album “True” (1982),
per scemare piano piano lungo il decennio, fino allo scioglimento, alle
controversie legali, alla malattia (superata) di uno dei membri.
Prendendo le mosse dalle origini proletarie omiddle class dei
cinque ragazzi, Hencken si avvia da subito sul sentiero ben tracciato
delle “biografie in musica”, ossia in una sorta di diligente lavoro di
repertazione che, intervallando cinegiornali d’epoca, programmi
televisivi che contestualizzano i fatti, fotografie e filmini
dell’archivio privato dei musicisti, offre un quadro d’assieme in cui si
sovrappongono le tinte contrastate del desiderio di riscatto, quelle
del genuino amore per la musica, come un certo gusto per lo sberleffo
unito ad un altrettanto puntuale scaltrezza nella gestione degli affari,
la cui sostanziale prevedibilità, però, alla lunga, non viene intaccata
neanche dal montaggio nervoso.
Si rincorrono così, accanto alle hit più
famose della band (la quale, si stenterà a crederlo, ha emesso i primi
vagiti su sonorità punk), “True”, “Highly strung”, “Through the
barricades”, “Gold”, “I’ll fly for you”, e assieme a tutto il corollario
di mise improbabili,
pettinature vaporose, limousine e migliaia di adolescenti in delirio,
immagini che giustappongono la scena dei locali londinesi di inizio anni
’80, il ritorno ad una musica più ballabile, l’avvento del decennio
della Thatcher, “Top of the Pops”, MTV, Live-Aid, perché impossibilitate
ad offrire una qualunque prospettiva che non sia la loro semplice
riproposta in un moto circolare che preclude all’analisi l’utilizzo di
uno dei suoi strumenti più efficaci: la vera distanza. Nel lavoro di
Huncken tale distanza non può darsi dal momento che pressoché tutto ciò
che è mostrato è ancora presente – magari mutato ma nemmeno tanto – e
continua a tornare e a passare, come un lieve detergente su una
superficie senza asperità (gli Spandau saranno di nuovo in tour a
partire dal 2015). Amen.
TFK (voto **)
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