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Il termine “americanata” è un neologismo circa il quale neppure tre pagine di dizionario basterebbero a descriverne tutte le declinazioni in maniera esaustiva. “Still Alice”, film di Richard Glatzer e Wash Westmoreland – che narra di una madre di famiglia ammalatasi di una rara forma di Alzheimer precoce – ne assume tutti i connotati peggiori. Postulato che è doveroso fare un minuto di silenzio per la sceneggiatura, che ai mielosi tratti drammatici ne alterna alcuni comici iper-calcolati, rendendo la riuscita finale assiduamente artificiosa e pre-frabbricata, Still Alice racconta di quanto il dramma più grande di un essere umano sia la distruzione della felicità (?) di una famiglia borghese da parte di una malattia rara. Lasciato, quindi, completamente da parte il lato umano della vicenda, tutto si concentra su come la tragedia vada a modificare gli equilibri inter-familiari, annullando di fatto qualsiasi dinamismo nell’evoluzione (o involuzione) dei personaggi e rendendo la visione noiosa – per non usare epiteti peggiori-. Non ci vengono risparmiati neppure i flashback girati in super-8, né il discorso commovente (?) al termine del quale tutta la platea si alza in piedi lacrimando. La regia, a tratti apatica e a tratti antipatica, trova i momenti di maggiore esaltazione nel fare continua pubblicità al marchio “Apple”, rimarcando in malo modo il concetto con la battutaccia affidata ad Hunter Parrish circa la superiorità della tecnologia sull’uomo. La bravura del cast, ovviamente, non basta a risollevare le sorti di un prodotto di così basso livello. Lo spunto di partenza di “Still Alice” è tanto ottimo quanto pessimo ne è lo svolgimento. La mela di Steve Jobs, a quanto pare, vale più di quella di Isaac Newton. Antonio Romagnoli (voto *)
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