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A bird on the edge of a blade lost there forever… Ovvero… della seconda stagione di “True Detective”…

Creato il 01 settembre 2015 da Cineclan @cineclan1

Arriviamo un po’ in ritardo, lo sappiamo, ma se voi per lavoro aveste dovuto aver a che fare con degli idioti per oltre un mese non avreste avuto neanche voi tempo per restare in pari con True Detective, ma per fortuna c’è ancora speranza nel mondo e allora eccoci qui in questo primo giorno di settembre caldo e umido a fare due chiacchiere su questa seconda stagione così bistrattata e insultata.tumblr_nqet5zTJC31qcyrmyo8_1280

Partiamo da un primo (insindacabile) dato di fatto… A noi questa seconda stagione è garbata parecchio (come direbbero da qualche parte), proprio perché diversa dalla prima. Quindi nessun paragone, please. E anche la mancanza di Rust e Marty è rimasta sottotraccia, come un dolce ricordo.

Non c’è speranza nella seconda stagione di True Detective, nessuna speranza. Il finale aperto non lascia presagire uno spiraglio di luce. Gli amici ci lasciano e i cattivi, i poteri forti, sono sempre lì, irremovibili, eterni, perché alcuni pagano per i loro peccati, altri no.  Infatti il peccato, il senso di colpa, la legge del contrappasso sono le vere colonne portanti di questa stagione. E non c’è una scala di “peccato”: i peccatucci veniali e i peccati capitali sono sullo stesso piano. In un modo o

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nell’altro si tratta sempre di colpa. E che uno affronti i propri peccati a viso aperto o che questi lo attacchino alle spalle, non fa differenza. “Abbiamo il mondo che ci meritiamo” e dobbiamo pagare, perché “i nostri figli ricorderanno”.

E mai come in questa stagione la genitorialità ha rappresentato il contraltare della colpa. La redenzione… In un modo o nell’altro. Genitorialità cercata e negata, genitorialità casuale e accettata. Genitorialità in quanto funzione e non ruolo. Genitorialità che non necessariamente coincide con i ruoli biologici di padre e madre, ma che è intrinsecamente correlato al prendersi cura. Tutti si prendono cura di qualcuno in True Detective:

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Ray si prende cura di Ani e di Paul, di un figlio che potrebbe non essere il suo; Ani si prende cura di sua sorella e in qualche modo anche di quel padre che vorrebbe negare di avere. Persino Frank si prende cura (a suo modo) di Ray. Perché se sei legato a qualcuno, se lo ami, te ne prendi cura. A tuo modo, forse non nel modo in cui l’altro vorrebbe, ma te ne prendi cura, ti assumi la responsabilità di un’altra persona. E’ forse questa l’unica speranza di questa seconda stagione: è importante prendersi cura delle persone che si ama.

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E se proprio dobbiamo trovare un “difetto” a questa stagione, allora questo non sono i protagonisti (ci è piaciuto anche Vince Vaughn…), ma la regia o meglio, le diverse regie dei diversi episodi. Uno dei tratti distintivi della prima stagione era la complessità e la compattezza stilistica della regia affidata alla sola mano di Cary Joji Fukunaga (che, cosa non di poco conto, a noi fa anche un certo sangue…). In questa seconda stagione, invece, i diversi stili, le diverse visioni dei registi lasciano sullo schermo delle sbavature, delle tracce, come delle impronte digitali che lasciano a volte interdetti e a volte totalmente conquistati.

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Le citazioni autoriali (una su tutte quella tratta da Viale del Tramonto) e i rimandi onirici a Lynch (corvi, visioni, mancava solo un nano!) e quelli fotografici a Malick spiazzano lo spettatore per la loro etereogeneità, ma al contempo alimentano e confortano il cinefilo che tanto si era esaltato per il famosissimo piano sequenza nel finale del quarto episodio della prima stagione… E come dovreste oramai ben sapere, noi siamo dei cinefili esteti ed esaltati!

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