Il 5 dicembre scorso si sono riuniti a Biškek, in Kirghizistan, i capi di governo dei Paesi membri a pieno titolo dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (Russia, Cina, Kazakistan, Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan) e dei Paesi membri osservatori (Afghanistan, Iran, Mongolia, Pakistan e India). Il primo ministro kirghiso Žantoro Satibaldjev, dopo aver dato il benvenuto agli ospiti, ha posto l’accento sulla decisiva questione legata alla cooperazione industriale e commerciale tra i sei Stati raccolti nell’organizzazione intergovernativa, per cercare di favorire le economie più arretrate, distanti anni luce da quelle più forti presenti in Russia, in Cina e in Kazakistan. Ha dunque auspicato che i progetti più importanti nell’agenda del summit trovino presto una loro realizzazione definitiva attraverso la creazione di un fondo di sviluppo comune e la definizione di programmi di sostegno finanziario alle piccole e medie imprese delle aree centrasiatiche più critiche sia dal punto di vista della coabitazione interetnica sia dal punto di vista dello sviluppo economico e sociale.
L’instabilità dell’ex repubblica sovietica è uno dei fattori che suscita maggiore preoccupazione nell’analisi geopolitica della massa eurasiatica. Il definitivo salto di qualità che l’appannata economia nazionale dovrebbe compiere è diventato il biglietto da visita del nuovo presidente Almazbek Atambaev, eletto alla fine del 2011 dopo la chiusura della parentesi amministrativa provvisoria di Roza Otunbaeva. Senza stabilità sociale non esiste una reale stabilità politica, soprattutto in un Paese che, come dimostra la Rivoluzione dei Tulipani di sette anni fa, è sempre sull’orlo di implodere. Perciò è quanto meno preoccupante il fatto che la Russia continui a rimandare l’appuntamento con la storia che si è data lo scorso anno, quando avviò i lavori per la costruzione di un’Unione Eurasiatica che sappia andare oltre la mera ridefinizione dello spazio comune sotto l’aspetto doganale.
Il primo ministro cinese Wen Jiabao, dal canto suo, si è detto disposto a stanziare un finanziamento pari a 10 miliardi di dollari per una nuova linea ferroviaria che colleghi la Cina, il Kirghizistan e l’Uzbekistan, al fine di facilitare ed intensificare i rapporti commerciali e militari tra le parti, soprattutto nell’ambito della sicurezza collettiva (lotta al narcotraffico e al terrorismo). Wen Jiabao ha anche sottolineato come in Kirghizistan e in Tagikistan sia ormai divenuta prioritaria la questione relativa alla sicurezza alimentare. Prevalentemente montuose, queste due nazioni dipendono eccessivamente dall’agricoltura e basano il loro sistema di forze produttive sulla sola eredità industriale dell’era sovietica, senza aver acquisito, nella fase di transizione, la necessaria capacità di adattamento al sistema di mercato. Per quanto concerne il Tagikistan, inoltre, è sempre più evidente la disparità economica ed infrastrutturale interna tra la regione settentrionale di Leninabad e la provincia autonoma meridionale del Gorno-Badachšan, focolaio di molti problemi di stabilità interetnica e interreligiosa.
Il primo ministro russo Dmitrij Medvedev ha ribadito la necessità di sviluppare sistemi di trasporto veloci per abbattere i lunghi tempi di percorrenza delle merci ma ha anche posto l’accento sull’importanza di coordinare i sistemi di credito interbancari tra i Paesi membri, suggerendo di valorizzare tutti i progetti in base alla sola efficienza economica. Un principio che non convince e non soddisfa le urgenze sociali dell’Asia Centrale.
Interessantissimo è stato invece l’intervento del vicepresidente afghano Karim Khalili. Questo è stato infatti il primo incontro ufficiale da quando la Repubblica Islamica guidata da Amid Karzai ha fatto ingresso all’interno del gruppo dei membri osservatori, affiancandosi dunque ad Iran, Mongolia, Pakistan ed India. Khalili ha ovviamente posto l’accento sulle condizioni critiche del proprio Paese e ha ricordato che nel 2014 le truppe della coalizione ISAF, in base a quanto stabilito dal comando statunitense CENTCOM, si dovrebbero ritirare definitivamente dal territorio nazionale. A quel punto, le questioni relative alla sicurezza collettiva diventerebbero di esclusiva competenza di un governo che in questi undici anni di guerra ad intensità variabile non è riuscito ad acquisire né i mezzi né l’adeguata capacità di affrontare simili sfide geopolitiche. È per tanto stata avanzata una richiesta ufficiale all’Organizzazione di Shanghai, affinché possa inviare alcuni dei reparti militari attivi nell’ambito della Struttura Regionale Antiterrorismo (RCTS). Khalili ha detto in modo chiaro: “Ci auguriamo che l’Afghanistan non solo riceva assistenza su basi bilaterali, ma che sia anche pronto a collegarsi con i progetti internazionali della OCS”.
È evidente che, se mai le truppe dell’ISAF dovessero veramente ritirarsi in modo completo e definitivo dall’Afghanistan, lo farebbero per due ordini di motivi: anzitutto per questioni di necessità economica in relazione alle parziali riduzioni della spesa militare concordate dalla NATO nel quadro della Smart Defense, ed in secondo luogo alla luce di un piano di trasferimento di un consistente numero di uomini e di mezzi dal Medio Oriente e dall’Asia Centrale verso la regione Asia-Pacifico, come facilmente intuibile dalla dottrina strategica annunciata da Obama nel gennaio di quest’anno. Suona perciò strana, oltre che controproducente, la simultanea concessione russa alla NATO di uno scalo aereo nella città di Uljanovsk per interventi di tipo logistico in Afghanistan.
Se la volontà del nuovo corso intrapreso dal Paese, dopo l’evidente fallimento gestionale nordamericano, è quella di integrare le sue politiche di sicurezza e cooperazione nelle direttrici geopolitiche e geostrategiche dell’OCS, basterà accoglierlo ed assecondarne le richieste, evitando nettamente qualsiasi tipo di complicazione.
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